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Atalantino io lo nacqui

Qualche anno fa, Senzamalizia ebbe la brillante idea di convincere Secundus e me a dare alle stampe, sotto la regia di Pier, la raccolta “Il blu e il nero, storie di atalantini lontani”.

Fu un’avventura emozionante, quella di dare un corpo, un anima ed una collocazione geografica ai nostri personaggi di fantasia. Così abbiamo scritto del Capitano Ubbiali, del professor Caudano, dell’agente di commercio spagnolo. Perché un atalantino lontano ha un qualcosa di suo. Privato. Innato.

Qualche giorno fa, Gino mi propone di incontrare Andrea. Napoletano verace. Ma non si tratta di un personaggio di fantasia. Si tratta di un professor Caudano, di un Capitano Ubbiali, di un agente di commercio spagnolo in carne ed ossa. In cuore ed anima.

Dall’altra parte dello schermo del telefono mi appare un bambino di settant’anni.

Un bambino, perché le rughe sulla fronte hanno quella direttrice che riesce solo ai bambini, quando sono contenti. Quando sono attraversati da quella felicità innocente, sincera, pulita.

Ha i capelli con dolci striature bianche, Andrea Di Lauro. Anche la barba, non troppo lunga e ben curata, tende all’argenteo.

Le sopracciglia con i vertici esterni rivolti all’insù hanno cambiato la natura delle rughe, facendole tornare indietro, da rughe di maturità a solchi di infantile gioia.

“Dopo sessantaquattro anni di onorato servizio da tifoso lontano, ho l’onore di parlare di Atalanta per un sito di atalantini. Un regalo immenso, inaspettato, quello che mi sta facendo atalantini.com.”

Fatico a comprendere il vero spessore della gioia che gli monta dentro. Solo ripensando ai personaggi de “Il blu e il nero” comincio a definire la dimensione del sentimento che pervade un “atalantino lontano”. Nemmeno noi che siamo atalantini fin dentro ai geni riusciamo ad arrivare ai certi picchi di entusiasmo, a certe cime di soddisfazione, forse accessibili solo a coloro che bergamaschi non sono.

“Atalantino io lo nacqui.”

La libera citazione del suo illustre compaesano, il Principe De Curtis, non poteva mancare e non poteva che finire come cappello a questa chiacchierata.

“Non ricordo come accadde. Non lo so. Mi hanno detto che fin dall’età di sei anni tifavo per l’Atalanta. T’immagini? Sei anni! Non ricordo un motivo particolare. Lo nacqui e basta.”

La maglietta che Percassi ha deciso di donare ai neonati atalantini, Andrea l’ha ricevuta settant’anni fa. E non è una maglietta da indossare sul torso, bensì sull’anima.

E’ un neurologo in pensione, Andrea. Una vita passata a curare la gente e a tifare Atalanta. A modo suo.

Perché tifare Atalanta da lontano, in casa d’altri, non è cosa semplice.

“Don Pinotto. Avevo otto anni. Aveva capito che quel bambino soffriva di una inclinazione calcistica particolare e cullava un sogno segreto.”

Come nelle più classiche delle storie che hanno intriso le radici della nostra cultura, è un sacerdote da oratorio che si accorge dei sogni dei bambini. E li realizza.

Così Andrea, otto anni, viene accompagnato da Don Pinotto ad assistere a Napoli - Atalanta allo Stadio Arturo Collana, sulla collina del Vomero. Nel 1958 non c’era ancora il San Paolo, che venne inaugurato a Fuorigrotta solo nel dicembre dell’anno successivo.

Fu quello il Battesimo di Andrea. Un due a due sofferto. Soprattutto per lui, che imparò a capire in quell’istante cosa significasse tifare da solo, in casa d’altri. Da lì ebbe la certezza che quella era la sua passione. Ebbe la certezza che quel sogno non era un capriccio, ma una stimmate.

Allora non ci stupiamo se, nei tempi dove gli unici contatti con l’Atalanta erano i pochi collegamenti con la radiolina, le striminzite righe sui giornali del lunedì o quelle manciate di secondi dedicate dalla televisione nazionale, Andrea rimanesse fedele al suo credo anche negli anni bui della serie B o in quello torbido della C.

“Sono monogamo. Non avrei mai potuto cambiare squadra. E poi, i sogni dei bambini non si possono tradire.”

Andrea conosce la donna che gli resterà accanto per tutta la vita. Cosa le chiede?

“Di includere Bergamo nel giro del viaggio di nozze. Magari la domenica. Magari a vedere la partita.”

Credo che la moglie non potesse resistere allo sguardo di Andrea. Mi pare di vederlo. Un po’ come John Belushi nella film The Blues Brothers, quando si toglie gli occhiali e guarda Carrie Fisher.

Atalanta-Rimini. Due a zero. Doppietta di Bertuzzo.

“Quel giorno provai un’emozione che non dimenticherò mai.”

Gli occhi gli si ingrandiscono, il sorriso si fa ancora più tenero. Alza lo sguardo, forse per tentare di riassaporare quel momento.

“Al gol di Bertuzzo alzai le mani al cielo. Un uomo, dietro di me, mi prese il polso e gioì con me. Non avevo mai provato una sensazione simile. Non avevo mai provato a trovarmi in mezzo a gente che tifava la stessa squadra che tifavo io.

Poi qualcuno mi chiese che ore fossero. Mi trovai imbarazzato e mostrai il quadrante dell’orologio. Avevo paura di parlare, non sarei riuscito a nascondere le mie origini partenopee.” 

Ma la storia non finisce lì. Fuori dall’albergo dove soggiorna, incrocia Franco Previtali. L’Atalanta si era già privata dei Cabrini, degli Scirea.

“No, Fanna no. Almeno Fanna teniamolo.”

Gli piace ripassare gli anni in cui l’Atalanta faticava in cadute e risalite fra serie A e serie B. E’ quello che ha cementato una fede a distanza.

Negli anni ottanta, il lavoro porta Andrea dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti. Non c’è ancora internet, non c’è ancora atalantini.com.

Ma il filo già lieve ed infinito che lo lega all’Atalanta non si spezza.

“Mi abbonai all’edizione del lunedì della Gazzetta dello sport. Solo qualche riga. Ma era sufficiente per tenermi aggiornato. Poi scoprii un giornale che si chiamava L’Eco di Bergamo. Allora mi abbonai alla sua edizione del lunedì.”

Il tempo passa e la tecnologia migliora. Ora Andrea non si deve più comportare da clandestino, per seguire l’Atalanta. Anche se tifare la Dea a Napoli è una missione, più che un piacere.

“Con internet ho smesso di seguire l’Atalanta dal buco della serratura. Il vostro sito è una mia priorità quotidiana.”

Si alza e cammina per la casa, mentre parliamo. Mi mostra una fotografia. Andrea che tiene in braccio Andrea.

Come nelle più classiche tradizioni italiche, il nipote che prende il nome del nonno.

In eredità gli ha passato il nome, per ora. Il figlio è tifoso del Napoli, ma ha concesso al proprio padre di farsi fotografare con il nipote in braccio, con la maglietta “atalantini si nasce.”

Ecco, Andrea, il piccolino, la maglietta l’ha avuta in regalo dal nonno. Lui invece, il grande, l’ha avuta dal destino.

Noi non siamo napoletani.

Gliela tiro lì. All’improvviso. Come una sassata sul vetro.

Si fa cupo, Andrea.

Lui è napoletano.

Non finge. Non simula. E soprattutto non tradisce la sua terra. Le sue origini e ne va fiero.

Gli angoli delle sopracciglia si abbassano. Le rughe della fronte si fanno severe.

“E’ solo un coro da stadio. Ci sta. Fa parte della goliardia del calcio. Anche ai bergamaschi, qui a Napoli, sono riservati cori non proprio ripetibili.

Io non me la prendo, perché so che non è il pensiero della gente. Voi bergamaschi siete chiusi, freddi. Ma quando vi aprite siete incredibili.

Quando vi ho conosciuti e mi avete conosciuto, mi avete aperto il cuore. Gente come Gino e molti altri sono dei vulcani, pieni di iniziative, di passione e di solidarietà.”

Inevitabilmente lo porto sul dramma che ha colpito tutto il mondo, con Bergamo come epicentro.

“E’ stato un disastro.”

Gli occhi si arrossiscono, distoglie lo sguardo dal video. Forse per dissimulare la patina di rugiada che si gli si è depositata sopra. Ma le lenti degli occhiali no, non le puoi tradire. Si sono leggermente appannate.

“Qui è subentrato l’orgoglio nazionale. Come medico e come cittadino ho partecipato a tutte le iniziative di solidarietà per Bergamo. Vi assicuro che tantissimi napoletani hanno organizzato iniziative per la vostra città. Ma lo avrebbero fatto anche per Treviso o per qualsiasi altra città. Come avete sempre fatto anche voi. Per chiunque ne avesse bisogno.”

Ma torniamo alle cose belle. E l’Atalanta è comunque una cosa bella.

Gli voglio estorcere qualche soddisfazione particolare. Andrea ha il cuore grande e non si trattiene.

“Io ho vissuto il nove a tre con il Milan. Quindi, puoi immaginarti la soddisfazione di avergli tirato le cinque pappine a dicembre.

Ma la soddisfazione più grande è stata a San Siro, ed io c’ero, contro il Manchester City.

Vedere una big mondiale perdere tempo al corner per timore di perdere la partita ed ascoltare le dichiarazioni di un grande come Guardiola, che ci paragona al dentista, è una soddisfazione difficile da spiegare a chi non la vive.”

L’Atalanta attuale stupisce. Anche chi la tifa da quasi settant’anni. Lui, dopo Zagabria, non avrebbe mai creduto che avremmo potuto proseguire il cammino in Champions.

“Sembravamo spaesati. Dentro una competizione che non era la nostra.”

Poi però la storia ci ha restituito una versione differente. Impensabile.

Ecco, la storia.

Anche Andrea vede nella continuità di una filosofia la chiave di una storia importante.

Parliamo dei Bortolotti, di Ruggeri, dei Percassi. Sta tutto lì, il segreto.

“Poi, Don Antonio ha costruito una macchina perfetta, frutto dell’alchimia fra un allenatore visionario, una dirigenza competente e un regista incredibile.

Don Antonio, appunto.”

Noi lo chiamiamo Tone. Lui lo chiama Don Antonio. Perché Andrea è napoletano verace. E ci mette la sua Napoli dentro la sua Atalanta.

Mi piace chiuderla così, la chiacchierata con Andrea. Con questa espressione di atalantinità partenopea. Perché un tifoso lontano ha un mondo tutto suo. Privato. Innato.

Mi saluta con un arrivederci ben preciso.

Davanti ad un piatto di baccalà.

A Lisbona…

…dopo la finale…

 

Rodrigo Dìaz




 

 
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