24/08/2020 | 09.09
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Come cambia il fattore campo senza pubblico

Atalanta-Sassuolo, i tifosi cantano all'esterno dello stadio e i ...

Abbiamo analizzato e confrontato i risultati delle partite dei principali campionati prima e dopo la pausa.

In un passaggio delle Forme elementari dell’esperienza religiosa, pubblicate nel 1912, Émile Durkheim ha celebrato il ruolo della società e della collettività nell’esaltare e potenziare, parole sue, le «coscienze individuali».



«In un’assemblea riscaldata da una comune passione diventiamo suscettibili di sentimenti e di atti, di cui siamo incapaci con le sole nostre forze», ha scritto il padre della sociologia moderna. «Quando poi, scioltasi l’assemblea, ci ritroviamo soli con noi stessi e ricaduti al livello or­dinario, ci è possibile misurare tutta l’altezza a cui eravamo stati sollevati al di sopra di noi stessi». Secondo Durkheim, grandi esempi di questo fenomeno nella storia sono state le Crociate e la Rivoluzione francese (due anni dopo la pubblicazione di queste frasi sarebbe scoppiata la Prima guerra mondiale).

Oltre sessant’anni più tardi, nel 1977 il passaggio appena citato è curiosamente comparso nell’introduzione di uno studio che per la prima volta, prendendo proprio come spunto l’intuizione di Durkheim, ha voluto mettere alla prova dei fatti un’altra intuizione molto diffusa tra chi fa sport e lo segue, ma scientificamente sfuggevole: il vantaggio di giocare in casa, o home advantage, come viene chiamato nella letteratura scientifica.

 

Home advantage

Lo studio del 1977, dati alla mano, mostrò che in quattro sport (baseball, basket, hockey e football americano) le squadre che giocavano in casa effettivamente vincevano in media di più e facevano più punti delle squadre ospiti. La motivazione? Secondo gli autori, stava tutta – per tornare a Durkheim – nel supporto dato dal pubblico: nella spinta della collettività sull’individuo.

 

Negli ultimi quarant’anni è così esploso un settore di ricerca, con sociologi, psicologi, economisti, statistici e scienziati motori impegnati a comprendere meglio non solo il reale impatto del pubblico, ma a decifrare gli altri meccanismi – ancora oggi in parte irrisolti – che stanno alla base del vantaggio di giocare in casa. Sia negli sport collettivi che individuali, sia in manifestazioni nazionali che internazionali: pensate al primo sport che vi passa per la mente, e quasi sicuramente troverete uno o più studi sull’home advantage in quella disciplina (sì, anche per il curling).

 

Una delle prime pubblicazioni dedicate al calcio e all’home advantage è uscita nel 1982, sul settimanale di divulgazione scientifica New Scientist, dove si suggeriva che la Spagna, in quanto Paese ospitante, avrebbe potuto vincere con maggiore probabilità i mondiali di quell’anno.

 

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Il titolo dello studio uscito su New Scientist nel 1982.

 

Il fattore campo nel calcio

Molti studi hanno poi confermato, sebbene con sfumature empiriche diverse, che nel calcio il numero di tifosi, la loro densità sugli spalti e la loro vicinanza al campo (si pensi, per esempio, agli stadi con la pista di atletica leggera) hanno un impatto sui punti fatti da una squadra che gioca in casa, e su altri elementi, come il numero di occasioni da gol create.

 

Altre ricerche hanno invece evidenziato come nel calcio gli arbitri tendano a privilegiare le squadre che giocano in casa, fischiando loro meno falli e dando loro meno cartellini rispetto agli ospiti, e allungando i minuti di recupero, molto probabilmente perché influenzati inconsapevolmente (quindi non in malafede) proprio dalla pressione sociale esercitata dal pubblico. Per esempio, uno studio di qualche anno fa ha mostrato come il suono delle folle negli stadi pieni possa influenzare le scelte arbitrali nel valutare l’intensità di un contatto (dato, per esempio, dal rumore nello scontro tra due giocatori) o la sua regolarità.

 

Alcuni ricercatori si sono occupati invece di stabilire che ruolo abbiano nell’home advantage la distanza percorsa nei viaggi dalle squadre per andare a giocare una partita o l’altitudine in cui si trova il campo da gioco. Secondo uno studio del 2014, condotto su 157 campionati di calcio in tutto il mondo, l’home advantage cambia molto di Paese in Paese, probabilmente sia per le differenze geografiche che per quelle culturali.

 

In uno studio recente sono state analizzate quasi 141 mila partite in 54 stagioni (dal 1963 al 2018) nei maggiori campionati europei, tra cui la Serie A, la Premier League, La Liga, la Bundesliga e la Ligue 1, più le massime serie in Turchia, nei Paesi Bassi e in Portogallo. In oltre cinquant’anni, in media il 61,9% dei punti in Premier League è stato conquistato dalle squadre che giocavano in casa, il 64,2% in Bundesliga, il 66,4% nella Liga, il 66% nella Ligue 1 e il 63,2% in Serie A. I dati mostrano però che il vantaggio casalingo, in alcuni casi, è lentamente calato di decennio in decennio, probabilmente a causa anche della maggiore diffusione delle partite in tv e in radio, che ha fatto sì che gli spettatori controllino e motivino anche a “distanza” le performance dei propri giocatori.

 

Infine, altri fattori studiati sono stati quelli legati alla familiarità con il campo, alla difesa della territorialità e alla tendenza degli allenatori a schierare formazioni più difensive quando giocano fuori casa, in una sorta di “profezia che si autoavvera”, avvantaggiando chi si trova tra le mura amiche.

 

Ovviamente, separare il segnale dal rumore, ossia isolare i vari fattori causali in gioco, è molto difficile da un punto di vista scientifico. Ma gli scienziati hanno a loro disposizione strumenti metodologici che permettono di individuare, con sufficiente precisione, che cosa può determinare o meno il vantaggio di giocare in casa.

 

Oggi, l’emergenza coronavirus e gli stadi vuoti danno un’opportunità per provare a capire, in un contesto senza pubblico, come è cambiato il calcio con gli stadi vuoti, non solo in termini di spettacolo ma anche di home advantage.

 

Nelle ultime settimane diversi allenatori hanno commentato questa situazione fuori dalla norma. Per Claudio Ranieri della Sampdoria, senza tifosi il calcio è «senza senso», mentre secondo Sinisa Mihajlovic del Bologna «fa schifo». «Vedere gli stadi pieni ti dà adrenalina, forza, una voglia incredibile», ha invece dichiarato l’allenatore del Napoli Gennaro Gattuso, mentre per Maurizio Sarri, ormai ex allenatore della Juventus, è vero «che fai a meno della spinta del pubblico ma hai quelle piccole abitudini su cui puoi fare affidamento come lo spogliatoio e i tuoi punti di riferimento in campo», che fan sì che «il fattore campo incida ancora».

 

Ora che i massimi campionati europei sono finiti, che cosa dicono i numeri? Il vantaggio di giocare in casa, senza tifosi allo stadio, si è ridotto davvero? Abbiamo analizzato i dati dei maggiori campionati europei, scoprendo che un effetto c’è stato.

 

Come è cambiato l’home advantage con il coronavirus

 

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Il fattore campo nella stagione 2019/20 misurato nelle partite prima e dopo l’interruzione dovuta alla pandemia.

 

Il primo caso che abbiamo esaminato è quello della Germania, il primo dei maggiori campionati a essere ripartito e curiosamente, quello in cui l’impatto dell’home advantage ha subito la riduzione più significativa, osservazione coerente (ma non necessariamente correlata) con il fatto che la Bundesliga sia anche il campionato europeo con l’affluenza maggiore (43.451 spettatori medi nella stagione 2018/19).

 

Se dopo le prime 25 giornate le squadre di casa avevano conquistato il 50,4% dei punti, nelle 90 partite rimanenti le formazioni ospitanti hanno raccolto appena il 39,9% dei punti complessivi. Il trend sulle percentuali di vittorie si è praticamente invertito: prima della pausa, le squadre di casa avevano vinto il 43,1% delle partite; dalla ripresa, sono state le formazioni ospiti a vincere il 44,4% delle gare.

 

Sorprendentemente, scendendo di un gradino la piramide del calcio tedesco, il risultato è nettamente diverso. In 2.Bundesliga, infatti, le squadre ospitanti hanno conquistato il 53,9% dei punti disponibili nelle partite successive alla ripresa, mentre la percentuale pre-lockdown era del 52,0%. Tra l’altro, le vittorie per i padroni di casa sono salite del 3,7%.

 

Anche in Serie A, quarto campionato per affluenza media (25.482 spettatori nel 2018/19) gli stadi vuoti non sembrano aver avuto un’influenza particolarmente determinante sui risultati. Le squadre di casa sono persino migliorate rispetto alle gare pre-lockdown, salendo da una percentuale di punti conquistati del 48,3% (la più bassa tra gli otto campionati presi in considerazione in questa analisi) al 50,6%.

 

Come in 2. Bundesliga, nel caso del massimo torneo nazionale, le vittorie tra le mura amiche sono persino aumentate nelle ultime 120 gare, dal 40,8% al 43,3%. In Serie B si è osservato invece il trend opposto, con una diminuzione del fattore campo del 3,6%, comunque non paragonabile al -10,5% osservato nel massimo campionato tedesco.

 

In Premier League, seconda in Europa per affluenza con una media che nella passata stagione ha toccato quota 38mila paganti, non è praticamente cambiato nulla: le squadre di casa hanno raccolto il 53,3% dei punti prima dello stop forzato e il 53,7% nelle 90 gare recuperate dopo la ripresa. In Championship si è invece registrato un certo impatto, tanto che dalla ripresa, le squadre ospiti sono tornate a casa con il 54% dei punti totali, rispetto al 48,2% pre-lockdown.

 

Il caso della Liga (27.113 spettatori medi) è quello più affine alla Bundesliga: quello spagnolo era il campionato in cui il fattore campo aveva pesato di più fino all’interruzione, tanto che le squadre di casa si erano accaparrate il 57% dei punti; dopo la ripresa, però, il rendimento complessivo è calato del 7%. In particolare, con la percentuale di pareggi rimasta praticamente invariata (scesa da 27,8% a 27,3%), sono le vittorie esterne ad essere cresciute sensibilmente, da meno di una vittoria esterna ogni quattro partite (24,4%), a quasi una ogni tre (31,8%). Al contrario, non è cambiato granché in Segunda Division, dove il fattore campo è salito dell’1,5%.

 

Volendo fare una valutazione d’insieme degli otto campionati in esame, il fattore campo ha subito una riduzione percentuale del 2,5%: le squadre di casa hanno conquistato il 52,4% dei punti nelle 2.335 gare giocate prima dell’interruzione e il 49,9% nelle 810 gare giocate senza pubblico dopo la ripresa. Di fatto, i punti in palio sono stati distribuiti equamente, anche se questo non vuol dire che l’esclusione degli spettatori dagli stadi abbia automaticamente determinato l’istituzione di un level playing field nel calcio.

Come abbiamo visto sopra, i termini dell’equazione sono molteplici e la varianza in un campione di partite relativamente piccolo può essere stata significativa: in poche parole il caso potrebbe aver influenzato le risultanze osservate.

 

Elementi quali il calendario, che potrebbe aver determinato confronti relativamente impari, o la mancanza di obiettivi di alcune squadre, che senza un traguardo potrebbero (inconsciamente o meno) aver tirato i remi in barca prima della conclusione del campionato hanno sicuramente avuto un ruolo nei risultati di fine stagione.

 

Così come il cambiamento dei piani di preparazione atletica, le temperature mediamente più alte o l’introduzione della nuova regola sulle cinque sostituzioni, tutte componenti che ci impediscono di trarre conclusioni solide da un’analisi monodimensionale. O ancora, la diversa interpretazione della regola sui falli di mano che ha generato una disparità importante nell’assegnazione dei rigori tra campionato e campionato.

 

Tra giugno e luglio scorsi, sono già stati pubblicati due studi scientifici dedicati esclusivamente alla Germania dove con modelli statistici complessi si è confermato sia che l’home advantage sembra dipendere molto dall’intensità della presenza dei tifosi sia che gli arbitri tendano a cambiare il loro comportamento, punendo di più le squadre in campo.

 

Un’altra ricerca, appena uscita, ha mostrato che su un campione di quasi 6.500 partite giocate in 17 campionati prima e dopo la pausa causata dal coronavirus, con gli stadi vuoti gli arbitri hanno dato meno cartellini alle squadre ospiti, limitando il vantaggio di giocare in casa.

 

In conclusione, possiamo dire che quello che è certo è che il fattore-campo è una realtà dello sport e del calcio, e che in base alle nostre analisi (e a quelle di ricerche più articolate) è effettivamente diminuito, seppur di una percentuale relativamente bassa, nelle gare giocate senza pubblico. Ma serviranno studi metodologicamente fondati per quantificarne con precisione l’impatto, le cause e la variazione di Paese in Paese.

fonte ultimouomo.com
By marcodalmen
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