23/10/2016 | 09.32
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Da Orrico a Mourinho, tanti flop a Bergamo

A Bergamo, è una partita trappola per l’Inter. Una di quelle partite che per caratteristiche tecniche e intrecci storici, gli spagnoli con il loro giornalismo di grande letteratura amano definire così, per tratteggiare il carattere di un incontro e spiegare la strada che prenderà. La loro storia fatta di conquiste nella modernità, li spinge a considerare gli aspetti più controversi di una partita perché anche li, nei novanta minuti, c’è qualcosa da conquistare. I tre punti in questo caso. Fondamentali per l’Inter ancora labile nel gioco e non capace di orientare, come vorrebbe, i ritmi e l’andamento delle partite in questo inizio di stagione e in quest’annata di profondi cambiamenti.

La partita è difficile perché l’Atalanta arriva da una serie positiva di tre gare e ha la porta inviolata da due, mentre l’Inter ha perso a Roma e soprattutto a Milano contro un Cagliari che sta giocando una stagione eccellente e che con il talento di Melchiorri ha evidenziato come ancora sia lontano dall’Idea tecnica della squadra di De Boer, il concetto alto di difesa come emblema. L’essere impenetrabili è il principio del gioco, tratto della grandezza caro alle grandi squadre e indipendente dallo stile del gioco, che sia di stampo olandese oppure di matrice italiana.

Questo era lo stesso ragionamento dei conquistadores nelle battaglie nel nuovo mondo, pensavano sempre a essere assolutamente inattaccabili. La stessa strategia che l’Inter deve mettere  in campo a Bergamo per superare indenne l’idea sottile di rivincita di Gasperini e acciuffare un piccolo vantaggio indiretto in chiave qualificazione Champions sul Napoli, già caduto a Bergamo e dentro una spirale da cose turche, come la notte dei campioni ha evidenziato.

La strategia va a braccetto con la storia. E l’Inter dovrebbe ricordarsi la sua a Bergamo per evitare la trappola e vincere questa partita. Si dovrebbe ricordare ristudiando tra i meandri del campionato, di uno storico Atalanta – Inter e di un nome: Corrado Orrico. Un altro grande e potenziale anarchico del nostro calcio. Il 19 gennaio del 1992 era seduto sulla panchina dell’Inter e vedeva con somma tristezza, la fine inevitabile di un’idea di gioco e di una rivoluzione. L’aveva chiamato a dirigere una delle più grandi squadre europee il presidente Pellegrini per effettuare un tentativo audace, alla Danton. Quel tentativo era di rivoluzionare l’Inter trapattoniana e vincente dandole un gioco nuovo, moderno e con una convenzione dell’epoca spettacolare.

Si pensava fosse il movimento autonomo e per questo lodevole di percorrere una nuova strada da parte di un’altra grande squadra italiana, si rivelò invece il tentativo di imitare il modello di gioco imperante del Milan di Sacchi prima e di Capello da quel campionato. Di solito nello sport gli imitatori realizzano sempre brutte copie del modello e anche qui le idee pur buone e innovative di Orrico, che fu il primo a reintrodurre la difesa a tre degli anni ’40  e ’50 nel campionato della marcatura a uomo di allora, non ebbero successo. Forse troppo anarchico lui, forse troppo conservatori i grandi draghi della vecchia guardia che dovettero cambiare sistema e posizioni in campo e quindi certezze, fatto sta che arrivò Bergamo e fu l’epitaffio della rivoluzione.

Il centravanti brasiliano Bianchezi dimenticò per un attimo la saudade della sua San Paolo e infilzò al cuore l’Inter utopica e sognatrice di Orrico su rigore. Quell’1-0 di allora arrivato in un gennaio freddo presagio di un anno, il 1992 terribile, portò il grande anarchico alle dimissioni. La sua Inter non aveva nemmeno perso molto era la terza sconfitta su 17 partite, ma i molti pareggi ibridi, la media di 1,12 punti a partita, i 15 gol fatti identici a quelli subiti e quindi inutili, l’eliminazione portoghese al primo turno Uefa e, soprattutto la nona posizione in classifica erano troppo borghesi, troppo piatti, troppo poco immaginifici per un anarchico come Orrico.

Quell’Inter utopica che si scontrò col conservatorismo del calcio italiano è quella di oggi di De Boer nella stessa idea importante e coraggiosa di proporre qualcosa di nuovo, qualcosa di innovativo che si fletta con la grande tradizione del calcio italiano. Per ora questa costruzione non si sta realizzando e ancora, presenta situazioni tecniche e tattiche incompiute. Per questo è una trappola spagnola: perché sembra facile ma non lo è in fondo, perché Gasperini vuole rimarginare una ferita di quattro anni fa, perché l’Inter è ancora, pur dentro una qualità grande e potenziale, indefinita come squadra.

José Mourinho quando nel gennaio del 2009, diciassette anni dopo Orrico, perse a Bergamo 3-1 nell’intervallo di quella partita, sotto per 3-0, arringò a brutto muso i giocatori. Lo fece non tanto perché furente di una sconfitta che riportava la Juventus tre punti sotto, ma perché i suoi pretoriani non avevano capito in partenza il carattere di quella partita. Non avevano capito come invece avrebbero fatto i conquistadores (che pur quei giocatori erano in quegli anni) che era una “trampa”: una trappola. Lui iberico di nascita e spagnolo per un settennato lo sapeva perfettamente.

Ci pensi De Boer che con Mou ha lavorato a Barcellona, a questo fondamentale tratto della partita. E per preparare la strategia si ricordi di quello che da olandese ha imparato su gare di questo tipo, nella terra dei conquistadores e delle trampas.
  

fonte calciomercato.com

By marcodalmen
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