Il mondo di Papu
L’exploit dell’Atalanta si deve anche alla miglior stagione in carriera di Alejandro Gómez. Un successo che parte da lontano, raccontato da lui.
Ci sono molti modi in cui un calciatore può essere definito atipico, e distaccarsi dal fondo degli stereotipi che contraddistinguono il suo lavoro. Mentre arrivo al centro medico Perform, nel quartiere Malpensata a Bergamo, penso che la stessa esistenza di questa struttura è uno di quei modi: qui Papu Gómez ha scelto di fondare una palestra speciale, in cui al lavoro fisico è affiancato quello mentale.
Il sistema di allenamento importato in Italia da Papu e dal suo fisioterapista si chiama “Potencialmente”: si ricreano situazioni simili a quelle che ci sono durante un match, momenti che rendono necessarie decisioni velocissime contemporaneamente allo sforzo agonistico. Ad esempio, si allena la vista periferica individuando dei numeri colorati su un muro mentre si eseguono stop e passaggi, oppure facendo calcoli matematici su una lavagna fra uno scatto e l’altro. Per Alejandro Gómez, chiamato Papu fin dall’infanzia, è un primo mattone per costruire qualcosa che vada oltre la carriera attuale. Per farlo può contare sulla moglie Linda, un architetto impiegata in un importante studio di Bergamo. Linda, inoltre, sta per lanciare la sua collezione di moda. Per Papu è «un orgoglio», e con lei si confronta ogni giorno. Ogni decisione in casa Gómez viene presa pensando ai bisogni di entrambi, «altrimenti sarebbe troppo egoista da parte mia. Cerchiamo sempre, a parte il calcio, di avere altre motivazioni».
Anche l’immagine social di Papu risponde ai canoni di atipicità: il suo Doppelganger online è una via di mezzo fra il comico e il compagno di classe burlone. Arriva all’allenamento con il golf cart, mima la discesa delle scale dietro al tavolo del bar, si lancia in improbabili balli, falcia senza pietà il figlio Bautista. Papu Gómez rientra nella definizione di anti-divo, lontano non soltanto esteticamente dai modelli più patinati. «Io sono nato in una famiglia di classe media, normale, di Buenos Aires», dice. «Cerco di essere sempre la stessa persona di quando sono cresciuto nel mio quartiere. Non sono Cristiano Ronaldo, io sono Papu Gómez e gioco nell’Atalanta, cerco sempre di mantenere una mia linea».
Quando non giocano i senatori Raimondi e Migliaccio è Papu il capitano dell’Atalanta. Anche in questo ruolo, è un capitano diverso: Papu non urla, si arrabbia raramente. Dice che il rispetto dei suoi compagni deve arrivare dal gioco, lo chiama «il carisma in campo». E alle grida nello spogliatoio preferisce mandare «un messaggino, un whatsapp, per dire con calma che questa cosa mi piace, questa invece meno».
Gómez ha da poco avuto un figlio. Chiama la società dall’Austria e gli comunica che non vuole più tornare in Ucraina. «Basta, niente, non vengo, non torno», dice. Lascia tutto nella casa in Ucraina in cui non tornerà più. Ci pensa un amico a riprendere mobili, vestiti, oggetti. Papu non sa cosa succederà, torna in Argentina. Si allena da solo, è senza squadra. L’ultimo giorno di mercato, il 31 agosto, arriva l’Atalanta. Gómez arriva a Bergamo pieno di euforia ma senza la preparazione atletica adeguata. Si infortuna subito e fatica a ingranare. A Natale decide di dedicarsi a un allenamento intensivo, una doppia seduta giornaliera per recuperare. «Ho detto a Linda: non partiamo per le vacanze in Argentina». I risultati, in breve tempo, si vedono.
La disciplina è qualcosa che Papu Gómez ha imparato da Diego Pablo Simeone, suo allenatore al San Lorenzo. Il Cholo, all’epoca, lo schiera da esterno, e Papu non vuole, vuole stare in mezzo al campo, trequartista o seconda punta. Simeone insiste. Racconta: «Io gli dicevo: no, non voglio giocare sulla fascia, dopo mi insulta la gente, se gioco male è colpa tua». Simeone insiste: gli dice che quello è il ruolo in cui deve imparare a giocare se vuole andare in Europa. «L’ultimo campionato al San Lorenzo gioco lì e gioco bene. Finisce il campionato, inizio il ritiro. Il Cholo se n’era andato, arriva il Catania e mi compra per fare l’esterno d’attacco, per fare il 4-3-3».
È il ruolo che Papu mantiene in tutto il suo percorso italiano. Naturalmente, anche all’Atalanta, in cui non ha mai reso così bene come con Gian Piero Gasperini in panchina: «Mi ha sorpreso la sua mentalità, la personalità sua di arrivare contro il Napoli, in cui si stava giocando la panchina, e mettere tutti ragazzi di 20 anni. Non glien’è fregato niente». In una squadra con un’età media che si aggira intorno ai 23 anni, Gómez è uno dei veterani della squadra. «È stato da subito un segnale del mister», spiega, «e non è che io gioco perché mi chiamo Gómez e ho 200 partite in Serie A. Se non mi impegno, se non faccio bene, sto fuori. Se c’è un ragazzo che sta facendo bene, gioca il ragazzo. E questo è veramente un segnale fortissimo per tutto il gruppo».
Oggi l’Atalanta gioca per un posto in Europa che manca dal 1991. La vittoria contro il Napoli, in trasferta, è stata festeggiata da 3000 tifosi all’aeroporto di Bergamo, al ritorno dell’aereo con la squadra. Gómez parla però con calma: «È tutto bellissimo, ma dopo Napoli io stavo già pensando alla partita con la Fiorentina. Preferisco festeggiare una volta che è finito tutto. So che stiamo facendo bene, che possiamo fare qualcosa di storico in questa città, e questo mi dà la forza di continuare a migliorare e cercare di fare meglio, ma io penso sempre al presente. Sono un calciatore, non posso mettere la pelle del tifoso».
A proposito di futuro, Papu torna a parlare di orizzonti oltre l’Atalanta, oltre la Serie A, oltre il calcio di calciatore: «È un momento importante della mia carriera e della mia vita, ho 29 anni. È il momento per cominciare a fare altre cose, magari prima non ci pensavo, ero più piccolo. A Catania ad esempio sapevo che non sarei rimasto tutta la vita. Forse qua posso rimanere, non si sa, Bergamo è una città che mi piace tantissimo, anche per viverci in futuro». Gli chiedo quale sia il pensiero, tra questi ragionamenti, che lo rilassa di più. L’immagine da fissare in testa per passare oltre le difficoltà. La risposta è semplice: «La palla, la palla. È la cosa che mi diverte e mi distrae, cercare di tornare a quel ragazzino che giocava sulla strada con i suoi amici per il solo divertimento. Più quello che il resto, l’ambiente del calcio è strano, ci sono tanti interessi in mezzo, quindi a volte non è così bello come si vede solo da fuori. Quindi quando ci sono momenti di difficoltà cerco di aggrapparmi a quello, alla palla e ai momenti che ho vissuto da ragazzino. Il gioco del calcio di un bambino, della strada, di amici di momenti semplici».
fonte rivistaundici.com Di Marco Fasolini