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Lettera al sito: Celtics e Dea, la pazienza è potere - by Ombra



Di Stephen Pagliuca si è scritto e parlato già tantissimo. L’italoamericano più famoso nella bergamasca da febbraio a questa parte possiede un curriculum ormai arcinoto agli appassionati atalantini. Sappiamo tutto sulle sue origini, sui suoi investimenti e la sua scalata ai vertici della NBA, lega sportiva tra le più avanguardistiche ed evolute del mondo. Abbiamo imparato ad apprezzare le affinità, di facciata e convenienza o meno, tra il Pride dei Celtics e il Mòla Mìa nerazzurro, motivazione emotiva che avrebbe ulteriormente spinto, oltre a meri interessi economici, il Co-Chairman di Bain Capital ad acquisire parte delle quote della famiglia Percassi. Anche sulle righe odierne di quotidiani cartacei e online, è ripresa un’intervista nella quale Pagliuca sottolinei il trattamento ugualmente riconoscente e stimolante intessuto tra le dirigenze di Atalanta e Boston Celtics e i loro tifosi e giocatori. Detto che la retorica è in grado di accorciare ulteriormente una memoria talvolta troppo corta (se particolarmente curiosi, andate a cercare gli sviluppi e le conseguenze della gestione di Isaiah Thomas da parte della dirigenza Celtics), le analogie potrebbero effettivamente andare oltre qualche fiume di inchiostro. Questi Boston Celtics possono indicare un possibile modello per l’Atalanta del prossimo futuro? Un’occhiata alla stagione 2021-2022 dei Greens, per loro fortuna non ancora conclusa, è assai indicativa.

Premessa: chi scrive è molto più competente di pallacanestro a stelle e strisce rispetto a quando si parla di Atalanta: non me ne vogliate, ma in questo caso è il cuore a parlare. Perdonate quindi se qualche nome o dinamica che citerò non sarà sufficientemente approfondita alle orecchie e agli occhi dei neofiti, ma cercherò di essere il più chiaro possibile senza perdermi in tecnicismi. Boston è attualmente in vantaggio 2-1 nella serie finale contro Golden State, avendo strappato il fattore campo grazie alla vittoria nella prima partita a San Francisco. Eppure, solamente il 6 gennaio, Boston navigava al limite della zona playoff, reduce da una sconfitta al Madison Square Garden di New York maturata dopo aver sprecato un vantaggio di 24 punti. Da quel momento, parole del coach Ime Udoka, “abbiamo cambiato registro”. Mostrato già un buon sistema difensivo, dall’Epifania a oggi i Celtics sono la miglior squadra di pallacanestro al mondo (anche le fredde statistiche lo confermano), con la seconda che arriva terza. Senza dilungarsi sulle caratteristiche dei singoli e sulle tattiche elaborate dallo staff per garantire il cambio di rotta, il grande merito di Boston è da ricercare anche, se non soprattutto, lontano dal parquet. Badate bene: questo giudizio, non più tardi di sei mesi fa, sarebbe stato difficilmente sostenibile. Ma come asserirebbe Confucio, massima che questa società sta sempre più cercando di farci dimenticare, la pazienza è potere.

Marcus Smart, Jaylen Brown, Jayson Tatum. Questi I tre giocatori chiave, pietre angolari nel nuovo ciclo di Boston, intrapreso dopo qualche annata anonima dopo la vittoria del titolo del 2008. La triade dei sopracitati è composta nel 2017. Da quel momento, ogni anno Boston sembra essere “sul punto di…”, senza mai completare l’enunciato. Le delusioni e le frustrazioni sono molteplici, per un gruppo tanto giovane quanto abituato a fermarsi di fronte all’ultimo ostacolo. La tentazione di rifondare e ricostruire un nuovo nucleo, favoriti dai meccanismi contrattuali e di mercato dell’NBA, è fortissima. Le condizioni ci sono tutte: per questioni caratteriali e tecniche, Smart-Brown-Tatum sono dei giocatori straordinari. Presi singolarmente, però: la loro sinergia, dopo quattro anni di uscite cocenti negli ultimi turni playoff, pare proprio non funzionare. Le voci su possibili scambi di uno dei tre tenori rimbalzano più insistenti, raggiungendo il culmine durante la scorsa estate. È la vera fine di questo ciclo? Chi scambiare dei tre? Su chi puntare per il futuro? La risposta agli interrogativi è sorprendente. Boston cambia tutto, senza cambiare nulla.

Brad Stevens, uno dei coach più giovani dell’intera NBA, impostosi da subito come una delle menti più illuminate e innovative della pallacanestro mondiale, dopo otto stagioni trasloca dal campo alla scrivania. Prendendo il posto del decano Danny Ainge, il cui immobilismo sul mercato gli è costato diverse critiche, il classe ’76 da coach si trasforma in President of Basketball Operations. Sulla panchina è approdato Ime Udoka, assistente allenatore dei Brooklyn Nets, alla prima esperienza da capo allenatore in NBA. In soldoni, è come se Percassi, al posto del binomio Congerton-D’Amico, avesse scelto di sostituire Sartori con Gasperini, e al posto del Gasp allenasse a Zingonia Salvatore Foti (sì, quello che talvolta avete visto urlare le indicazioni ai giocatori quando Mourinho è a “riposarsi” seduto…). A livello di rosa, nessuna rivoluzione: il movimento più grosso in estate è il ritorno di Al Horford, 36enne i cui tempi migliori paiono decisamente andati; a febbraio, termine ultimo per effettuare scambi tra franchigie, il nome più altisonante è quello di Derrick White, proveniente di San Antonio, il cui approdo a Boston costa alla franchigia del Massachussetts anche un paio di scelte nei prossimi Draft. Per fare un paragone più comprensibile, riportare Kurtic e acquistare Lucumì sono le mosse che la rinnovata dirigenza riterrebbe sufficienti a garantire un mantenimento ad altissimi livelli. Inutile dire che lo scetticismo regna sovrano. Nonostante tutto, la fiducia rinnovata ai giocatori principali sta ripagando. Eccome. Perché non tutti i frutti maturano ogni stagione. Nemmeno negli stessi mesi. Ma se curi il campo al massimo delle tue possibilità, stai pur certo che il momento di raccoglierli dall’albero arriverà.

Non sappiamo ancora quali delle tre vie citate da Gian Piero Gasperini sarà intrapresa dal nuovo apparato dirigenziale nerazzurro. La linea tracciata dai Celtics, idealmente, potrebbe essere un fil rouge tra il Pagliuca americano e il Pagliuca italiano. Rinnovare motivazioni e stimoli ricercandoli all’interno del proprio corpus. Senza stracciarsi le vesti o attirare le attenzioni di tutti, mostrando teatralmente la volontà di rivoluzionare. Dare fiducia, lasciati scivolare i commenti delle malelingue, nonostante i risultati non siano immediatamente quelli attesi. “Premere il bottone del panico”, si dice oltreoceano. Non so come tradurlo in bergamasco, ma anche se ai dirigenti e ai giocatori dell’Atalanta ‘i sifulerà i orège, i tappi dovremo essere bravi a procurarceli noi stessi. Tempo al tempo, sulla costa dell’Atlantico come all’ombra della Maresana.

 

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