Quello spazio infinito fra la riga di fondo e l’area. Fra la mediana e il dischetto del rigore
El Tio è un uomo saggio. L’ho sempre saputo. Perché la saggezza non viene dalla scuola, o da un’imposizione divina. Ma si costruisce dalla strada. E sulla strada.
E el Tio la vita l’ha sempre percorsa risalendola dalla china più dura. Quella dove a volte le gambe non bastano, ma serve anche aggrapparsi con le mani agli spigli vivi, ferendosi, sbucciandosi le ginocchia a furia di proseguire a gattoni, o escoriandosi i piedi a furia di camminare scalzi.
El Tio è uomo di calcio. Quello vero. Quello fatto di campi in terra battuta. Quello senza parastinchi. Quello fatto di spogliatoi lavati con la canna dell’acqua. Quello delle ginocchia legate da una garza bisuncia per contenere il dolore e delle caviglie fasciate con il nastro adesivo.
Causa la scomparsa del massaggiatore degli avversari, la partita era stata spostata di due giorni, per poter piangere la morte improvvisa di un uomo legato alla squadra da oltre vent’anni. Un buon uomo, da quanto tutti ne dicono.
Allora avevo deciso di andare a vedere la partita a casa del Tio.
“Ti cucino el bonito del norte, se però tu porti un buon bianco della Ribeira del Duero. Fermo. Del 2023.”
Andai da Ignacio. Ha una piccola enoteca fuori Pamplona. Conosce il vino meglio dei propri figli. Ma, soprattutto, conosce el Tio e sa come intende abbinare i gusti. Mi diede un Aalto de Resalte. Un po’ caro. Ma el Tio e il suo bonito del norte lo meritano.
Iniziamo la cena al fischio d’inizio della gara. Il cane Ernesto, la segue dal divano e, in fondo, ci invidia vedendoci assaggiare quel ben di Dio.
El Tio non ama che gli faccia domande mentre la partita è in corso. La sua testa è là. Sul campo. Sull’erba, fra la riga di fondo e l’area. Fra la mediana e il dischetto del rigore.
Gli guardo il viso, durante i quindici minuti di sciopero del tifo. Sembra un viso teso, ma comprensivo.
Poi, gli insulti. Poi, i fumogeni in campo.
E la smorfia della bocca. E il vino che pareva scendere a fatica nella gola.
Ma non gli ho detto niente. Fino alla fine della partita.
“Eppure, è morto un uomo. Eppure, c’era un funerale ancora da celebrare.”
Dissi, tentando di dare un senso a quella protesta.
“Sarebbe piaciuto a Graziano Fiorita?”
Mi chiese a bruciapelo. Con il cane Ernesto in braccio.
“Hai visto che bella faccia semplice e solare aveva nella fotografia?
La faccia semplice e solare di un uomo che preparava i suoi ragazzi per il campo. Per tutte le evenienze e i tranelli che il campo può riservare, compresa quella di trovarsi in una situazione così tragica e delicata. Se Graziano Fiorita fosse stato lì, in quel momento, li avrebbe massaggiati e avrebbe sussurrato loro nelle orecchie di giocare. Giocare per lui. Perché per lui quel “gioco” era tutto. Era la sua vita.
Il campo. La palla. Le gambe sciole e i piedi sopraffini. Quello spazio infinito fra la riga di fondo e l’area. Fra la mediana e il dischetto del rigore.”
La faccia del Tio era rigata da rughe profonde. La sua voce era ferma. Decisa.
“Chiediglielo tu, a Graziano Fiorita, se quello spettacolo gli è piaciuto, visto da lassù.”
Rodrigo Dìaz
