21/03/2020 | 12.31
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Toni Capuozzo: "Io sono Bergamasco"

Folgorante pezzo del giornalista friulano di Mediaset che molti ci hanno consigliato e che ringraziamo.

Tratto dal profilo Facebook ufficiale di Capuozzo.

 

Lettere da un paese chiuso 28

Quando muore Babbo Natale. Eravamo felici, e non lo sapevamo

Queste lettere hanno un mese, il 21 febbraio ci fu il primo caso di contagio rilevato, a Codogno. Sembra passata una vita, e sono passate invece tante morti. Bergamo ha preso il posto di Codogno, perfino il primo morto a Cuba era un bergamasco: due coppie di anziani in vacanza a basso costo, le due donne contagiate, l’altro uomo no. Nelle ultime 24 ore ci sono stati, a Bergamo, 509 contagi (a Milano di più, 526, ma non c’è proporzione tra le due città). I malati restano in barella anche 48 ore, in attesa del ricovero. Ormai si muore spesso in casa, le ambulanze faticano a tener dietro alle chiamate, i parenti sanno che i più fragili non avranno accesso alle terapie intensive, e si rassegnano a tenerli a casa: morire, ma non da soli. Non è che manchi la solidarietà: Ci sono almeno dieci ambulanze guidate da autisti delle altre provincie. Vi ricordate Amatrice ? Hanno mandato cento camici chirurgici. Vi ricordate l’ Irpinia del terremoto ? Stanno facendo una sottoscrizione. Ma un’altra colonna di camion militari è pronta. Muore il custode dell’orologio planetario di Clusone, muore il presepista di Ponte San Pietro, muore il dottore degli oleandri di Pumenego, muore Siro, il Babbo Natale di Torre dei Roveri, muoiono preti e suore, muore l’ex carabiniere che aveva fondato la onlus “Caduti di Nassirjia” e il carabiniere in servizio, muore la cassiera del supermercato: muoiono le piccole storie delle piccole comunità. Mi sono chiesto perché non mettiamo una scritta sui balconi, o un distintivo da Facebook con sopra scritto “Io sono bergamasco”. L’abbiamo fatto tante volte: mettere i colori francesi sui nostri profili per dire che eravamo con loro, dopo quella raffica di attentati a Parigi, “ Je suis Charlie” per dire che eravamo con quella redazione colpita. Adesso diciamo che stiamo con i medici e gli infermieri, ci mancherebbe altro. Ma nessuno dice “io sono bergamasco”. Il fatto è che nessuno di noi vive a Parigi, nessuno fa satira sul fondamentalismo islamico: e invece tutti potremmo essere una seconda Bergamo, e Brescia teme di diventarlo. E allora non ci arrischiamo a dire “Io sono bergamasco”: anche la solidarietà impone le distanze, qualche volta. Ci sono molti angoli d’Italia che per causa di focolai trascurati e misure di sicurezza non rispettate, rischiano di diventare come Bergamo: il record di contagi milanesi negli ultimi giorni è figlio di un maledetto week end di inizio mese, sole e parchi. E questo, con un po’ di scaramanzia, frena le chiacchiere e i distintivi. Un modo di dire la nostra solidarietà c'è: fare in modo che le nostre città e i nostri paesi tengano a bada il contagio, mantengano posti liberi nelle terapie intensive, si prendano cura dei bergamaschi vivi e dei bergamaschi disposti sui camion, come i bergamaschi si sono sempre presi cura degli altri. Ho pensato perchè in certi momenti , adesso, mi sento bergamasco. Intanto perché è difficile non voler bene a un popolo che stringe i denti per non piangere, o piange e stringe i denti.

E poi per me è una terra di alpini. Sono stato una volta in un cinema di Bergamo bassa, sul viale che sale dalla stazione, invitato dagli alpini a parlare di qualcosa, forse della vicenda dei marò. Io non ho fatto l’alpino: mi hanno spedito, artigliere, in punizione in Sicilia, dall’altro capo di Italia: mai punizione fu così felice, perchè ho scoperto e imparato ad amare la Sicilia. Ma vengo da una terra di alpini, li conosco, e ho prestato il mio nome quale direttore di una rivista di sezione dell’Ana in Friuli, “Alpin jo mame”, che non ha bisogno di traduzioni. Io non vi chiedo di ricordare quello che hanno fatto in Bosnia o in Mozambico, o in Afghanistan, no. Li abbiamo visti in Abruzzo, no ? Li vediamo quando c’è da fermare il traffico per una gara podistica, o regalare il loro lavoro, il loro tempo per qualunque cosa serva, fosse pure solo donare il sangue ? Li abbiamo applauditi quando sfilavano a Milano, pochi mesi fa ? Certo, non sappiamo che a Sefro, una frazione marchigiana sulla strada che da Assisi conduce a Loreto, c’è un edificio polifunzionale in legno appena finito, e finirlo sono stati gli alpini bergamaschi. Il solo gruppo ANA di Nembro ha avuto undici vittime. Andati avanti, nel linguaggio degli alpini. Gli altri, adesso, sono alla Fiera, a mettere in piedi un ospedale da campo.
Non solo loro, quanto a solidarietà: ho incontrato più missionari e volontari bergamaschi, negli angoli sfortunati del mondo, che di qualunque altra città italiana. Per anni sono stato tallonato affettuosamente da una persona speciale, Giangi Milesi, presidente del Cesvi. Sapeva del mio rapporto difficile con le ong, e lo scavalcava con affetto ed entusiasmo. Andavo una volta l’anno in un teatro di Bergamo, dove Cristina Parodi conduceva una serata per raccogliere fondi per la solidarietà ai quattro angoli del mondo, in stile bergamasco: poca ideologia, maniche tirate su, molti fatti. Adesso Giangi ha il Parkinson, e lo affronta con coraggio. I suoi sono in missione sotto casa, ad aiutare gli anziani soli e l’ospedale Giovanni XXIII.
Come tanti, posso dire di conoscere più l’aeroporto di Bergamo, che la città. Ci sono tornato l’ultima volta due o tre anni fa, in Città Alta, per parlare a un evento dedicato ai viaggi, Ulisse Fest. Provo, adesso, a ricordare i bergamaschi che mi ricordo di aver conosciuto. Il primo è il mio caporedattore quando stavo a “Epoca”, Gualtiero Tramballi. Un capo duro e gentile, intelligente e severo, che ti aiutava a crescere. Mi ricordo quella volta che andai, per non ricordo più quale storia, a Bergamo. Mi passò il pezzo con un’attenzione doppia. Mi ricordo Gigi Riva, allora inviato de Il Giorno nei Balcani, e poi a L’Espresso, un bergamasco innamorato dei Balcani. L’altro giorno, dopo che avevo scritto in queste note di Sarajevo, ho parlato al telefono con Bogdan Tanjevic, l’uomo del basket. Abbiamo parlato di Sarajevo, e di Trieste dove vive, e alla fine mi ha detto : “Salutami Gigi Riva”. Diciamo che ho molti conflitti d’interesse, anche quello egoista di pensare che se diciamo “io sono bergamasco” vorrà dire che non lo siamo diventati, che abbiamo smorzato l’onda del contagio. Gualtiero Tramballi, il caporedattore di cui vi ho detto, aveva scritto, nel 1976, un libro sul terremoto del Friuli. Forse mi aveva preso a benvolere per questa ragione. Certe volte mi chiedo ancora cosa mi correggerebbe, se scrivessi che un mese fa eravamo felici e non lo sapevamo. Oppure siamo stati felici senza saperlo, fino a poco più di un mese fa. Accetterei ancora adesso quelle sue correzioni, da bergamasco ruvido e buono.
Il decreto CuraItalia ha molte cose che non vanno, ma bisogna essere uniti. Mi limito a segnalarne umilmente una: là dove si definiscono obbligatorie le mascherine chirurgiche per i medici e il personale sanitario. Non è così: le mascherine chirurgiche possono bastare per i malati, non per chi li cura. E del resto mancano anche quelle. E’ un’idea borbonica cavarsela imponendo qualcosa per legge, e così lavandosene le mani, io ho la coscienza pulita. In Francia, dove pure seguono il modello italiano, il governo ha sequestrato tutte le mascherine, e le ha distribuite al personale medico. Quelle in più nelle farmacie, distribuite con ricetta medica innanzitutto a immunodepressi e anziani. Ieri in televisione, parlando di scarse protezioni, mi sono tornati in mente gli alpini, e mi è venuto da dire che abbiamo trattato i medici e gli infermieri come gli alpini in Russia: scarponi di cartone, e via con l’eroismo.

 

Toni Capuozzo

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