Ultras, gli altri protagonisti del calcio
Intervista a Sébastien Louis, autore di una bibbia sul movimento ultras.
Quello degli ultras è uno degli argomenti più fraintesi del discorso pubblico in Italia. Il movimento ultras non viene considerato per quello che è: una sottocultura, che agisce quindi con un linguaggio e regole proprie, spesso in opposizione alla cultura egemone. È difficile ascoltare e leggere contenuti rispettosi della complessità di questa sottocultura, anche perché stiamo parlando di un movimento chiuso che non ama raccontare sé stesso, e che vive con la costante paura di essere frainteso.
Lo abbiamo intervistato, corredando la chiacchierata con le fotografie di Giovanni Ambrosio, che ha viaggiato in nordafrica per testimoniare l’influenza della cultura ultras italiana in quelle curve. Giovanni e Sébastien curano il progetto Offside, che con mostre, fotografie e saggi vuole raccontare il mondo ultras attraverso un punto di vista rispettoso e originale. Buona lettura!
Il tuo libro è incredibilmente esauriente nella ricostruzione storica e sociale degli Ultras. Come hai lavorato e dove hai trovato tutto quel materiale?
Aver militato nella cultura ultras ti ha aiutato? Come hai fatto a trovare la giusta distanza?
Facendo un dottorato sull’argomento ho comunque dovuto trovare il giusto distacco, e i metodi della storia e della sociologia mi hanno aiutato, rappresentando la bussola del mio lavoro. Il dottorato mi prendeva tempo, era una cosa seria, quindi ho dovuto fare un passo indietro nella mia militanza da stadio, consacrando quasi tutto il mio tempo alla mia ricerca. Ho dovuto fare una scelta. Non potevo più fare l’ultras seriamente, allora ho lasciato la curva del Marsiglia per gli archivi, le biblioteche, le sedi dei gruppi ultras e le curve italiane.
Come spieghi nel tuo libro, quello degli ultras italiani è diventato un modello rispettato e imitato nel mondo anche da altre tifoserie. Perché però si è creato proprio in Italia, un movimento codificato in senso quasi militare?
Ci sono diverse cose che spiegano il perché: innanzitutto un periodo storico particolare, in cui nasce il concetto di adolescenza, per la prima volta i giovani italiani hanno soldi e tempo libero; bisogna poi considerare il contesto particolare dell’epoca, perché l’Italia era un paese conservatore e non c’era spazio per sottoculture ribelli come in Inghilterra [Teddy Boys, Rude Boys, Mods e altre ndr]. Con l’esplosione della passione per il calcio, e la strutturazione dei tifosi in club, era tutto pronto per creare una nuova forma di tifo. Gli anni di tensione politica e l’antagonismo daranno un’altra direzione a questo movimento. Bisogna poi fare una considerazione generale, e cioè che fa parte del DNA italiano sapere trasformare una cosa all’apparenza banale, come può essere il tifo da stadio, in un’esplosione di colori e creatività.
Da quello che descrivi, la violenza nella cultura ultras è una sorta di moneta: un valore da spendere socialmente nelle curve, ad esempio per salire nelle gerarchie. Perché esiste un legame privilegiato tra cultura ultras e violenza?
La cultura ultras, fino al 1973 non è stata così violenta, ma la prima generazione di curvaioli crescerà in un Italia sull’orlo dalla guerra civile, tra bombe e scontri tra fazione opposto. Un contesto che genera una cultura molto forte negli stadi. Va sempre ricordato che la cultura ultras è una sottocultura giovanile, e dobbiamo allora considerare il “ruolo sociale” della violenza, che in tantissime società rappresenta una specie di rito di passaggio per diventare adulti. Poi c’è la fascinazione per la violenza e il fatto che può attirare alcuni giovani maschi. Anche se i contrasti sono spesso spettacolari, dobbiamo capire che si tratta di una specie di “gioco”, di rito di cui gli ultras si nutrono volentieri. La maggiore parte di questa violenza è simbolica.
Nella cultura ultras esiste un filone del discorso che addirittura sottrae importanza al calcio (penso al coro “A noi della partita non ce ne frega un **zzo”, agli adesivi degli irriducibili “Quelli che il calcio te lo danno in faccia” o a vecchie dichiarazioni in un documentario sui CUCS in cui gli ultras si vantavano di dare le spalle al campo). Che tipo di relazione c’è tra ultras e calcio giocato?
Non dimentichiamoci però che gli ultras hanno anche trasformato lo spettacolo negli stadi. Prima del loro arrivo l’unico spettacolo era limitato al campo, da cinque decenni invece lo spettacolo è anche sugli spalti. Gli ultras giocano una partita nella partita, devono essere i migliori sugli spalti, anche a costo di non vedere quasi niente degli incontri sacrificandosi (come il capo-ultras) per il tifo. Alcuni diventano ultras del loro gruppo prima ancora che della loro squadra, possiamo citare il famoso slogan delle Brigate Gialloblù veronesi: “Prima tifosi delle Brigate, poi dell’Hellas”.
Dietro questa retorica dobbiamo capire che i mutamenti nel calcio, l’“industrializzazione” di questo sport è anche responsabile di questo, cioè il gruppo ultras è più legato alla città e ai colori della maglia che alle società o ai giocatori. In ogni caso, anche in un calcio cambiato come quello di oggi, con tutta la repressione che c’è, gli ultras restano. Questo perché rimangono dei veri drogati di calcio.
Un aspetto della sottocultura ultras italiana poco reclamizzato ma centrale è quello della creatività. Quali sono gli episodi e le espressioni che ti sono piaciute di più, che hai trovato più interessanti, raccogliendo il materiale per il libro?
Il gruppo ultras, la curva e la tifoseria sono antidoti all’individualismo promosso dall’economia liberale. Poi, in quale altro luogo della società si può incontrare una tale diversità di personaggi? Dall’avvocato al delinquente, dal padre di famiglia alla studentessa, dal compagno al camerata… Ho incontrato tanta gente diversa ed è stato bello, mi ha aperto lo spirito e la mente. Poi potrei menzionare altre piccole cose, come il fatto di rintracciare e ritrovare alcuni dei pionieri di questo movimento, parlo della prima generazione di ultras, come a Genova, sponda blucerchiata, e a Milano, sponda rossonera. Questa è stata un’emozione forte. C’è stato poi un piacere più di ricerca. Trovare nuovi documenti in archivio o nelle prime riviste, tipo Forza Milan, o una foto in bianconero, passando ore e ore all’archivio del Museo del Calcio; passare le mie settimane di ferie in Italia solo per trovare documenti, anche all’apparenza insignificanti, come una velina della questura all’archivio storico di Milano. È un sentimento che forse solo un ricercatore può capire.
Gli ultras fanno spesso riferimento al concetto di mentalità: a cosa ci si riferisce?
C’è un altro piano del discorso. L’individualismo crescente delle nostre società ha cambiato anche lo stadio, che è sempre uno specchio deformante della nostra società. Dunque, le tifoserie si sono divise e ogni gruppo in una curva pensava di essere il più adatto a sostenere la squadra di calcio. Ogni fazione è convinta di essere la più fedele ai valori originari, poi la trasformazione del calcio alla fine del 20° secolo ha anche toccato gli ultras, tra quelli “vecchia maniera” che erano diventati dei super-club, e una nuova generazione più oltranzista. Il frutto di questo paradosso è la creazione della cosiddetta “Mentalità ultras”, creata dai più giovani per contestare i vecchi facendo riferimento a “vecchi valori” che sono però in gran parte inventati.
La repressione negli stadi italiani è aumentata proprio nel momento in cui nel resto del paese diminuiva. Come te lo spieghi?
La Digos avrà un interesse sempre maggiore verso gli ultras: in seguito, i mezzi e i fondi impiegati durante gli anni di piombo saranno progressivamente utilizzati attorno agli stadi e sugli spalti, non più nelle manifestazioni di piazza.
Lo stadio, come spiego nel dettaglio in un capitolo intero dedicato alla questione, è dunque diventato un nuovo laboratorio della repressione. Non solo gli ultras sono vittime di questa politica, ma anche i normali tifosi, che sono schedati con il biglietto nominale e poi con la tessera del tifoso. L’ultras, come tra l’altro alcune figure sociali come l’immigrato, diventa dunque una cavia da laboratorio per le nuove politiche repressive che poi si applicano a altri soggetti. Si può notare oggi che la legge 48 del 18 aprile 2017 ha dato ai sindaci il potere di vietare l’ingresso ad alcune zone della città a persone ritenute pericolose, istituendo un Daspo urbano. Una cosa profetizzata da un vecchio striscione esposto da una gran parte dei gruppi ultras nell’ottobre del 2001: “Leggi speciali: oggi per gli ultras, domani in tutta la città”.
Una delle dinamiche fondamentali all’interno degli stadi è quella della relazione amico-nemico, eppure mentre le rivalità continuano a venir fuori i gemellaggi scompaiono. Come ti spieghi che i gemellaggi sono diventati sempre più rari?
Questo è anche causato dall’individualismo delle nostre società che si riflette nelle tifoserie, che non sono più unite come prima. Il gemellaggio, comunque, c’è ancora ed è sentito, basta pensare a Bari-Salernitana, Padova-Palermo, Parma-Sampdoria, il triangolare Cremonese-Reggiana-Vicenza. Forse ce ne sono meno di prima ma sono molto più sentiti. Oggi i gruppi gemellati non solo vanno a sostenere i colori amici ogni tanto, ma sono anche presenti per gli eventi extra-stadio, come i memorial, un torneo di calcio, una festa del gruppo… I motivi d’incontro sono più numerosi dunque. Infine, da vari decenni esiste il gemellaggio con una tifoseria straniera.
Il primo in assoluto fu quello tra le Brigate Gialloblù del Hellas Verona e gli hooligans del Chelsea nel lontano 1976, ma in quell’epoca ce n’erano pochissimi. Uno molto vecchio e duraturo è quello tra Ultras Tito Cucchiaroni della Sampdoria e il Commando Ultrà del Marsiglia che risale alla fine degli anni 1980. Ma da vent’anni, con la globalizzazione del tifo, e grazie sia ad internet che ai voli low-cost, si possono vedere tante amicizie e gemellaggi che possono sembrare strani: Curva Nord 12 Palermo e Inferno Pflaz del Kaiserslautern, gli ultras del Lokomotiv Plovdiv con la Curva A del Napoli.
Parliamo di un’altra cosa cambiata nel tempo. Le tifoserie organizzate negli anni ’70 si sono strutturate attorno alle influenze politiche dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Perché col tempo sono rimaste maggiormente le influenze di destra mentre i gruppi dichiaratamente di sinistra sono diventati pochi?
Alla fine degli anni 1980, quando c’è un ritorno dei simboli politici nelle curve italiane, la società è decisamente cambiata. Il paese si confronta per la prima volta con l’immigrazione, un fenomeno nuovo per gli italiani. Così il discorso xenofobo conosce un certo successo nella sfera pubblica. Le curve diventano un terreno per la diffusione di idee neofasciste. Gli ultras sono più attratti da un’ideologia che propone l’appartenenza a una formazione, l’essere pronti a battersi per essa e che ripiega su una visione binaria della società. Il modello del gruppo di estrema destra è affascinante perché propone un’esaltazione della violenza e del campanilismo nonché una ribellione contro il “politicamente corretto”.
Alcune organizzazioni, come il Fronte della Gioventù – al tempo – coglie perfettamente la permeabilità che esisteva tra le sue sezioni e le curve degli stadi. Poi è stata Forza Nuova a fare proselitismo tramite le curve. Bisogna aspettare la fondazione delle Brigate Autonome Livornesi nel 1999, con una visione più estrema dell’essere ultras di sinistra per vedere rinascere il modello ultras-compagno. Ma è una visione più forte, ad esempio hanno messo Stalin come logo del gruppo – un segnale significativo di questa svolta.
Ma ci sono anche altri fattori che spiegano questa tendenza, la prima è che la repressione è tale che i gruppi storici sono le prime vittime della legge. In questo senso è più facile essere casual per tentare alcune azioni che in un gruppo. Seconda cosa, da sempre, per gli ultras italiani, l’Inghilterra è stata la patria del tifo, un vero modello. I casual sono nati in Inghilterra alla fine degli anni ’70 a Liverpool e poi si sono diffusi in tutta l’isola, e sono stati ripresi alla fine degli anni ’90 da pochi ultras italiani, per poi conoscere un successo incredibile, sia a causa di internet che di vari film (Football Factory su tutti).
Ma in Italia, ci sono pochissimi casual all’inglese, perché hanno stendardi e qua notiamo tutto il genio ultras italiano che riemerge nelle loro pratiche e canti. Poi c’è da dire che siamo in Italia, il paese della moda, gli italiani hanno uno stile unico e geniale, quindi era facile avesse successo una moda basata sui capi d’abbigliamento belli e costosi!
Le logiche commerciali del calcio sono davvero inconciliabili con la sottocultura ultras oppure può esistere un livello in cui i due interessi vadano insieme (penso all’esempio tedesco, dove gli ultras rappresentano una parte fondamentale dello spettacolo televisivo)?
Di sicuro nella parte ovest dell’Europa, nei massimi campionati, è sempre più difficile fare l’ultras nelle massime serie, perché il calcio professionale non è uno sport, ma un’industria dell’intrattenimento. È un settore con un fatturato enorme, la contestazione non è accettata e gli ultras si devono adeguare. Mi permetto di citare uno dei responsabili delle Teste Quadre della Reggiana, che ho intervistato nel mio libro: «Probabilmente, in futuro, se vorrai andare allo stadio, se vorrai la tua bandiera, la tua domenica, la tua gradinata, dovrai adeguarti alle regole che ti imporranno. E adeguarsi per un ultras significa morire».
fonte ultimouomo.com