Vi racconto i Bergamaschi visti da Como
Un bel pezzo del giornalista e scrittore comasco Giuseppe Bresciani nell'imminenza del ritorno del Como dopo molti anni, domani nel nostro stadio. Il pezzo e' tratto da una rivista comasca ad uso e consumo dei suoi conterranei
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E CHI NON SALTA TIENE ALL’ ATALANTA
A dispetto della forte rivalità calcistica che ci rende antipatica la squadra di Bergamo, bisogna essere onesti e riconoscere che i neroazzurri sono l’espressione di un popolo che ha tantissime qualità umane e di una città bellissima.
Il “Mola mia” dei bergamaschi, salito alle cronache nazionali in occasione del Covid, è solo la punta di diamante di una razza laboriosa, testarda e fiera.
Bastano due elementi storici per consacrare il valore dei bergamaschi. Hanno costituito la maggioranza dei volontari garibaldini che parteciparono alla spedizione dei Mille, contribuendo all’unificazione dell’Italia, e sono alpini fino al midollo. Per loro, il cappello con la piuma non è un vezzo ma un vanto.
Della città è superfluo parlarne, è incantevole e di superba bellezza. Lo diceva Stendhal, mica uno qualunque. Bergamo Alta in particolare possiede la grazia e la fierezza di un’aquila che osserva con distacco il mondo dal poggio in cui ha la sua tana.
D’Annunzio, invece, ha colto l’osmosi che lega la città e i suoi abitanti, definendo Bergamo “la città geniale in sapienza e in prodezza, in meditazione e in azione”. Tutto vero, e l’Atalanta lo dimostra.
Credo che il presidente Percassi e l’allenatore Gasperini, novelli Bartolomeo Colleoni e Gaetano Donizetti, siano stati il lievito madre di una squadra capace di compiere un enorme salto di qualità. L’Atalanta non è più una provinciale di lusso ma una società modello. È entrata di diritto nel parterre de rois, il club delle grandi, conquistando un posto al sole anche a livello internazionale.
Ma qualche difetto ce l’avranno pure gli orobici? – si chiederà chi odia l’Atalanta. Ma certo, è più facile capire l’arabo che l’idioma bergamasco. Tant’è che la lettura della sfida con un’Atalanta che pare in stato di grazia è in questo detto locale: “In del piò bel de l’oselanda ‘l mör la sïèta”. Tranquilli, traduco. “Al culmine della caccia al roccolo, muore la civetta”.
Significa che è proprio quando le cose vanno a gonfie vele che bisogna temere un rovescio (come perdere il richiamo mentre gli uccelli abbondano nel roccolo).
Insomma, l’Atalanta è fortissima e paradossalmente è proprio per questo motivo che deve diffidare di noi debuttanti sul palco della Scala (o meglio al Teatro Donizetti). LA DEA MAESTRA DI CACCIA E DI CORSA.
Pare che i bergamaschi non sappiano dire “Ti amo”. Al massimo, esprimono un soddisfatto “Ti voglio bene” (“Te ole bé”). Questo perché l’unica donna alla quale concedono il cuore è l’Atalanta (“la Dea”). Della dea hanno ereditato lo spirito: la caccia e la corsa su un campo di calcio sono i caratteri pregnanti del gioco dei Bergamaschi, il cui palmares si è arricchito con il successo nella Europa League.
Pur non avendo mai vinto uno scudetto ma solo una Coppa Italia, oggi l’Atalanta è uno dei club calcistici più forti e difficili da affrontare, non solo in Italia ma in Europa. Ed è anche uno dei più nobili con 63 partecipazioni in serie A., il che gli vale l’11a posizione fra le squadre nazionali.
Sono lontani i tempi in cui il Comunale di Bergamo applaudiva il mitico portiere Pizzaballa (la cui figurina era introvabile), Stromberg e Doni (miglior marcatore con 69 gol). Al Gewiss Stadium si esibisce una squadra che amalgama felicemente campioni, folletti e operai specializzati.
FORZA E CORAGGIO. Servono entrambe per uscire imbattuti dal rinnovato stadio di Bergamo. L’Atalanta è un banco di prova quasi proibitivo ma utile per vedere di che pasta siamo fatti. Sfidarla in questo momento è quasi una fortuna, perché non è ancora al massimo della condizione e potrebbe sottovalutarci.
Comunque, in questo avvio di campionato non proprio brillantissimo (ma ricordiamoci che la Dea ha disputato le prime tre partite in trasferta, come noi), ha confermato il suo valore. L’arma in più sarà Lookman, scatenatosi contro la Fiorentina. Ma sorge un dubbio, anzi due. Quanto peserà sul rendimento degli orobici la partita settimanale di Champions League? E quanto inciderà sui nostri la beffa subita contro il Bologna?
I PRECEDENTI in campionato sono 56, all’insegna di una nostra leggera prevalenza. Abbiamo vinto 20 volte, i pareggi sono 18 e le sconfitte sono 19. Il bilancio delle 7 partite valide per la Coppa Italia è di 2 vittorie, 2 pareggi e 3 sconfitte.
Per oltre un secolo, a partire dal primo doppio confronto, avvenuto nel campionato di II divisione del 1922-23, lariani e orobici hanno trasferito sul campo una rivalità lombarda che si è accesa negli anni Settanta e non si è mai affievolita anche se l’ultimo incontro è avvenuto vent’anni fa. La prima sfida in assoluto fu disputata allo stadio della Clementina di Bergamo il 14/1/1922 e vide la vittoria dei lariani per 2-0, grazie a una doppietta di Mantero. L’ultimo doppio confronto risale al campionato di serie B 2003-04. Furono due sconfitte: 2-1 a Bergamo e 3-0 in casa. Riprendiamo da lì, e non si può fare a meno di rimarcare che non battiamo gli orobici dal 14/5/1989, quando il nostro Simone li castigò al Sinigaglia. Di acqua ne è passata sotto i ponti ed è ora che il nostro mulino macini il nuovo grano.
LA TRASFERTA MEMORABILE. Abbiamo vinto 5 volte a Bergamo e l’ultimo successo risale al campionato di serie B 1973-74. Ricordo bene l’1-0 con cui espugnammo quello che allora si chiamava “Stadio Comunale”, perché ero sugli spalti. Rammento la processione a piedi dei tifosi lariani fino allo stadio e i cori che costrinsero i benpensanti bergamaschi ad affacciarsi alle finestre per vedere cosa stesse accadendo. Era il 10/2/1974 e si giocava la prima giornata del girone di ritorno. Il Como respirava l’aria rarefatta del secondo in classifica a pari merito con il Varese, a 2 punti dalla capolista Ascoli. Era una giornata soleggiata e gradevole e gli spettatori erano 20.000 ca., con una larga rappresentanza lariana sugli spalti. Agli ordini del signor Trono di Torino, le squadre scesero in campo con le seguenti formazioni. Atalanta: Cipollini, Divina, Lugnan, Scirea, Vianello, Leoncini, Maccio (Meucci dal 68’), Vignando, Gattelli, Pirola e Bonci. Sulla panchina della Dea sedeva Heriberto Herrera. Como: Rigamonti, Callioni, Melgrati, Correnti, Cattaneo, Casone, Rossi, Curi (Galuppi dal 76’), Traini, Vannini e Pozzato. L’Atalanta esercitò un certo dominio territoriale ma il Como fu più concreto e colse un successo meritato. Dopo solo 14’ di gioco andammo in vantaggio con lo spilungone Vannini, abile a inserirsi in un veloce contropiede e insaccare con una saetta di interno destro. Di fatto, quella fu l’unica occasione da gol che il Como produsse in tutta la partita, che la cronaca descrisse all’insegna dei disperati attacchi atalantini, ma nei minuti finali ci punse la tarantola e sfiorammo per due volte il raddoppio. Il pubblico locale gridò “ladri” ai nostri giocatori ma se il nostro fu un furto, ebbene fu un furto con destrezza. La verità, e io c’ero per testimoniarlo, è che il Como di Marchioro era cinico e utilitarista, inoltre aveva una difesa granitica e, nell’occasione, il vantaggio di tanti tifosi al seguito. Tra i nostri, i migliori in campo furono Rigamonti, tutti i difensori, Curi e il cavallo Vannini, che si rivelò più veloce della dea Atalanta. Marchioro fu lungimirante, puntando sul gioco di rimessa e confidando che la nostra difesa avrebbe retto.