18/03/2020 | 13.00
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Ci sarei dovuto andare con Marcos

Ci sarei dovuto andare con Marcos.

Non è di Valencia e nemmeno tifa il Valencia. E’ di Madrid, Marcos.

E’ uno di quegli amici del silenzio. Di quelli che non senti per mesi, ma che quando si fa vivo, ti sembra di aver bevuto con lui la sera prima.

“Ti porto a vedere l’Atalanta”.

Mi scrisse qualche settimana prima, inviandomi la fotografia dei biglietti.

Invece poi il mondo è inciampato rovinosamente nella realtà di una natura che non può governare.

Non potevo andare dal Tio, a vedere la partita. E lo spero rinchiuso nella cascina. Lui e il cane Ernesto.

Charo salta già nel vuoto, bendata, ogni giorno al supermercato. Non era il caso di andare da lei.

La mia minuscola casa, appena fuori il centro di Pamplona, è diventata il mio mondo.

Piccola, disordinata, forse anche dimenticata. La maggior parte dei miei giorni li trascorro lontano da casa mia.

Essa, fino ad ora, è stata più un rifugio che una dimora. Ma ora è, di forza, diventata il mio mondo.

L’ho vista lì, la partita.

Con Migas Manchegas, cucinate dalle mie mani ed uscite anche bene. Una bottiglia di Ramon Bilbao sul tavolo ed una di Cesillas rosato in fresco, pronta per la torta di mandorle che mi aveva spedito la zia dal convento.

Tutto era surreale.

Lo stadio vuoto. Il gol di Ilicic a chiudere i discorsi ancor prima che iniziassero. Le migas uscite divinamente. Una quarantena che stava per iniziare. E la mia immagine riflessa nel bicchiere di Ramon Bilbao.

I capelli bianchi ormai non si contano più. E i peli della barba, che non si cura quando si è soli, sono ormai tutti color delle nubi del Cantabrico dopo la tempesta.

Sto invecchiando e questa vittoria che stava maturando, più che spingermi verso un’inimmaginabile fantastico futuro, mi accompagnava verso un dolce e tenero passato.

Alla mia prima Atalanta. A quando, poco più che adolescente, sono inciampato in questa squadra sconosciuta.

Avrei potuto tifare Osasuna, la squadra della mia città, o il grande Real, semmai una delle squadre epiche inglesi.

Invece, nonostante gli sfottò dei coetanei, ero andato a Lisbona, rubando l’auto di mio padre, per vedere il gol di Cantarutti.

Avevo tolto il volume del televisore. Non era necessario. Le immagini raccontano meglio, se non commentate.

Mi ero avvicinato a me stesso, complice il Ramon Bilbao. E avevo cominciato a pensare.

Il segreto di una buona vecchiaia, non è altro che un patto onesto con la solitudine, diceva Gabo.

Tenendo fede a quel patto dentro la solitudine tenera di quel mio, nuovo, piccolo mondo, mi tornavano in mente i baffi bianchi di Achille Bortolotti.

Il suo sguardo austero, fisso verso un futuro che solo lui riusciva a vedere, ma che sapeva non essere lui a raggiungere. E l’espressione tutta bergamasca degli occhi, del viso e del sorriso di Cesare Bortolotti. Lui, che aveva costruito quello che i Percassi hanno replicato in maniera più estesa trent’anni dopo.

E la sigaretta eterna di Previtali.

E le movenze sinuose di Stromberg. Il baricentro rasoterra di Nicolini. Lo sguardo da highlander di Cantarutti. Il passo compassato di Fortunato. E poi Barcella, bergamasco che più bergamasco non si può.

Ma la solitudine, quella vera, quella che fa vincere, era quella di Mondonico. Un uomo che sapeva essere amico ed aveva tanti amici, ma che sapeva essere solo quando doveva capitanare la nave.

Sono passati tanti anni.

Ero magro e alto. Un futuro davanti. Un mondo di progetti.

Ora sono qui, a negoziare un onesto patto con la solitudine per riscattare la vecchiaia. Con le tante pagine scritte che nascondono le poche ancora da scrivere.

Con il Gasp e Ilicic. Il Pau e Gosens. Hateboer e Zapata. Sullo schermo.

I Bortolotti. Stromberg. Cantarutti e Nicolini. Pasciullo. Mondonico. Nel riflesso del bicchiere.

In fondo, per me, questa realtà parte da lì.

Buono il Cesillas rosato.

Buona la torta di mandorle che mi ha mandato la zia dal convento.

 


Rodrigo Dìaz.

By staff
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