Cosa sei, Martino?
Un lungo e bel pezzo di bergamonews.it su Marten DeRoon con due video. Uno loro (intervista) e uno che riproponiamo, di un anno fa, di quella magica sera di Dublino della quale ricorrera' dopodomani il primo anniversario. Parole in piu'? non servono, solo leggere e vedere i video
da bergamonews.it:
È uno degli uomini simbolo dell’Atalanta dei miracoli, quella che sotto la guida di Gian Piero Gasperini ha raggiunto traguardi impensabili: le qualificazioni in Europa League prima e in Champions poi, le finali di Coppa Italia, il sogno scudetto, la storica vittoria di Dublino.
Da calciatore Marten De Roon ci ha messo pochissimo a farsi apprezzare, ma ben presto i tifosi nerazzurri si sono resi conto di quanto a livello umano quell’olandese arrivato dall’Heerenveen da semi-sconosciuto fosse simile a loro: lo hanno celebrato in campo e anche per le strade di città alta, nel giorno della consegna della benemerenza civica.
Tra nemmeno un mese riceverà anche un altro riconoscimento, quello dell’Accademia dello Sport per la Solidarietà di Bergamo: al termine del torneo solidale che organizza alla Cittadella dello Sport di via Gleno dal 21 maggio al 6 giugno, sarà “incoronato” Golden Vip, per il suo impegno e le sue conquiste in ambito sportivo.
All’Accademia dello Sport per la Solidarietà di Bergamo ha concesso la lunga intervista che pubblichiamo di seguito, contenuta nell’edizione 2025 del libro dell’associazione, in cui emerge il Marten uomo, prima del calciatore.
“Marten, ti piace la pasta?”
Quando de Roon risponde al telefono, dall’altra parte della cornetta c’è il suo procuratore. Gli sta proponendo di cambiare completamente vita, facendo la sua prima esperienza fuori dall’Olanda: lasciare l’Heerenveen, squadra con la quale aveva appena rinnovato il contratto, prendere sua moglie Ricarda, in dolce attesa della secondogenita Evie, la piccola Linn-Sophie e trasferirsi in Italia, a Bergamo, per giocare con l’Atalanta.
“Non l’avevo mai sentita nominare, l’ho cercata su Google”
scherza ora il capitano nerazzurro, col suo bagaglio di oltre 300 presenze con una maglia che oggi si è cucito più che mai addosso.
Cresciuto a Hendrik-Ido-Ambacht, cittadina dell’Olanda Meridionale a metà strada tra Rotterdam e Dordrecht, non ha mai dimenticato le sue radici. Calendari fitti di partite, tra impegni col club e con la nazionale, gli impediscono di farvi rientro spesso, ma appena possibile si imbarca sul primo aereo e torna a bussare alla porta di papà Wouter e mamma Marloes.
Lì conserva tantissimi ricordi, ovviamente, legati agli amici d’infanzia, ai luoghi che per primi hanno rappresentato per lui una parte del percorso verso il professionismo.
“È un paesino tranquillo, in cinquecento metri avevo tutto ciò che mi serviva – racconta oggi Marten de Roon – Da piccolo mi piaceva andare in bicicletta, ma il mio primo pensiero, già dai 2-3 anni, è sempre stato il pallone”
Come dei flashback rapidissimi, affiorano i racconti dei genitori:
“All’epoca andavamo in vacanza in Francia, in campeggio. Io prendevo la palla e iniziavo a fare il giro di tutte le tende per chiedere se qualcuno volesse giocare con me. È stata come una vocazione, volevo sempre giocare a calcio anche se dai 7 ai 12 anni ho praticato anche il tennis a buoni livelli. Poi ho dovuto fare una scelta tra i due: ero già nel settore giovanile del Feyenoord, non è stato difficile prendere questa strada”
Ma se lo sport rivestiva già una fetta importante della sua vita, il piccolo Marten non ha mai abbandonato la scuola:
“Ero bravo e mi piaceva anche andarci: c’erano tutti i miei amici, mi divertivo. Sono una persona molto competitiva e anche tra i banchi volevo essere il primo, il migliore, il più veloce a fare le cose. E questo a volte mi portava anche a fare degli sbagli. Sia i miei genitori che la società Feyenoord sono sempre stati molto chiari: se vuoi continuare a giocare a calcio devi avere successo anche a scuola. Pensate a quanti ragazzi sognano di diventare dei calciatori: in quanti alla fine riescono davvero ad arrivare? L’educazione è importante, in ogni caso”
In famiglia c’erano anche Elianne, la sorella più grande, e Marise, quella più piccola. Ed è soprattutto a lei che va il pensiero quando si parla dei suoi primi passi nel mondo del calcio:
“Mi seguiva sempre alle partite, con mamma e papà. Solo a distanza di anni ho realizzato quanti sacrifici hanno fatto per me, facendo un lavoro straordinario: per sostenere il mio sogno hanno acquistato una seconda auto, ci sono sempre stati. E se guardo indietro penso che l’avere avuto una famiglia stabile e presente, che non mi ha mai messo alcuna pressione affinché diventassi qualcuno, sia stata una delle mie più grandi fortune”
Il rammarico di non poterli vedere con maggiore frequenza è tanto:
“Mi dispiace non riuscirci, ma quando torno mi sento sempre a casa. Il paese è cambiato tanto, ma ci conosciamo tutti e ogni volta mi vengono in mente tanti aneddoti: giocavamo sempre e ovunque, per strada, nei parchi. Avevamo una piccola porticina, giocavamo a calcio anche in cucina: ora mi rendo conto che non deve essere stato facile per mia mamma tenere tutto in ordine. Per noi bambini era normale, ma crescendo ho capito che è stata una parte molto felice della mia vita”
Oggi de Roon ha tre figli: Linn-Sophie, Evie e Rein. A Bergamo hanno trovato la loro seconda casa, anche se pure per loro la famiglia resta sempre al primo posto:
“Abbiamo un buon equilibrio tra il tempo che dedico al calcio e quello alla famiglia. Mia moglie Ricarda è il mio punto fermo, ha un ruolo centrale nella mia carriera. È bello sapere che a casa c’è sempre qualcuno che mi sostiene. Anche nei momenti difficili mi ha sempre supportato. E questo per me è fondamentale”
Parla lentamente, ma con decisione. Gli piace raccontarsi, senza mai esagerare:
“Sono abbastanza calmo, non mi arrabbio mai troppo. Mi arrabbio con me stesso se sbaglio, quello sì. E ci metto sempre la faccia”
Come quella volta a Manchester, nella storica notte di Champions con lo United:
“Mi vergognavo. Avevo sbagliato e ci avevano segnato. Quando dopo il fischio finale mi sono presentato davanti ai microfoni, tutti mi hanno detto: bravo. Questo per me è importante: assumermi le responsabilità. La gente lo ha capito e mi ha dato ancora più forza”
Anche per questo ha deciso di imparare la lingua italiana:
“Perché quando sei in un altro Paese, devi sforzarti di capire. È una questione di rispetto”
Ecco, il rispetto. Quello per gli altri, per l’ambiente che lo ha accolto. De Roon si è immerso nella realtà bergamasca, ha lottato in campo con la maglia nerazzurra, ha difeso la Dea anche sui social, con ironia e intelligenza.
Ma ha anche sofferto, quando quella stessa Bergamo è stata travolta dalla pandemia.
“Non riuscivamo a capire cosa stesse succedendo. Ma c’era tristezza, c’erano dolore e silenzio. Poi, quando finalmente è finito tutto, siamo tornati a giocare. E anche se non potevamo ancora abbracciarci, siamo riusciti a restare uniti. Il popolo bergamasco è tosto, forte. Lo abbiamo capito in quei giorni, ma lo avevamo già imparato prima. Nessuno si lamenta mai, anche quando soffre. È un insegnamento”
Un insegnamento che de Roon ha portato anche nel suo ruolo di capitano:
“Sento il peso e l’onore della fascia. Non sono molto bravo a parlare negli spogliatoi, preferisco dare l’esempio sul campo. Ma se devo dire qualcosa, la dico. E tutti mi ascoltano. Perché sanno che lo faccio con il cuore”
E lo stesso cuore, Marten lo mette nel progetto benefico che porta avanti ogni anno con la sua famiglia:
“Organizziamo una partita di calcio e una cena, raccogliamo fondi e li devolviamo a chi ha bisogno. In passato abbiamo sostenuto l’ospedale oncologico pediatrico di Rotterdam, poi abbiamo aiutato alcune persone con disabilità. Quest’anno lo faremo ancora”
Un esempio dentro e fuori dal campo. Un uomo vero. Uno di noi.
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