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Demasiado corazón (prima parte)

Se mai vi venisse il dubbio leggendo il pezzo qui sotto ve lo togliamo da subito. Ebbene si', nei giorni scorsi abbiamo incontrato lui, uno dei piu' grandi protagonisti della storia atalantina, certamente il piu' discusso e ancora tra i piu' amati. 

Atalantini.com ha incontrato Cristiano Doni, quella che segue è la prima parte di quanto ci ha detto, cosi' come la descrive, con il suo stile inconfondibile, il nostro Rodrigo Diaz che insieme a Sigo l'ha incontrato 



Demasiado corazón (prima parte)

L’avevo detto solo ad un amico. Credo gli sarebbe piaciuto esserci. Anche se è un uomo schivo, gli piace ascoltare.
Ma credo gli sarebbe ancor più piaciuto giocarci contro, se solo non fossero stati di due epoche diverse. Giocava da difensore, questo mio amico. Amava marcare i giocatori di talento, perché per fermarli non serve solo essere attenti e forti, ma bisogna studiarli e capirne il genio.
La giornata è piovosa. Quasi autunnale, nonostante l’estate sia alle porte. Il cielo grigio, spesso, concilia con l’anima. E’ un’atmosfera che, in fondo, mi piace
Sono in anticipo. Rallento. Le note del pianoforte di Keith Jarret si intrecciano con le gocce tenere della pioggia, che nel frattempo si è un poco ammansita.
L’accenno di barba e i capelli corti, assieme alla percezione di qualche ruga, mi propongono un Cristiano Doni maturo. Tuttavia poco distante dal ragazzotto con i capelli lunghi che calcava il “Bortolotti” alcuni lustri fa, o al “abuelo”, come lo chiamavano i compagni al “Son Moix” di Mallorca.
Non ho assolutamente idea con quale animo possa ricevermi. Sa chi sono, ma non mi conosce. Ciò nonostante, l’atmosfera di un bar tranquillo, in una giornata di pioggia ai tempi della paura del covid non ancora sconfitto, ci propone un clima simile ad un bentornato, più che un benvenuto.
Un caffè al banco. Mi avvicino di spalla, mentre terminiamo i convenevoli.
Mi capita spesso di farlo, quando incontro calciatori in attività o ex calciatori. E’ un esercizio quasi involontario. La distorsione percettiva della televisione o la distanza degli spalti dal campo ci inviano dimensioni differenti dei nostri campioni. Allora li misuro con il parametro della mia mole. Così, tanto per immaginarmi come sarebbe stato se lo avessi incontrato in campo. Così come per immaginarmi come il mio amico lo avrebbe marcato su un corner o in un dribbling.
Dell’Atalanta di quel decennio, ricordo due Cristiano Doni. Quello del primo tempo e quello della ripresa.

“Sono stati più di due Doni. Sono stati diversi Doni. Cresciuti assieme e grazie all’Atalanta. Però, in linea generale, c’è stato un primo tempo con un primo Doni ed un secondo tempo, quello dopo il rientro dalla parentesi Samp e Mallorca, con un altro Doni. Più maturo. Più bergamasco, più sicuro che la sua terra sarebbe stata solo quella ai piedi della Maresana.”

La voce ha ancora il timbro giovane. L’atteggiamento pure. La “e” chiusa che si avverte in alcune parole è una delle pochissime sfumature che denotano la bergamaschità d’adozione, anziché di nascita.
“Non è sbocciato subito, l’amore per l’Atalanta. Ci sono stati anche momenti difficili, all’inizio.”
L’amore è un percorso, ma c’è sempre un momento che dà la percezione che qualcosa si è acceso.

“Fu sul pullman, mentre venivo allo stadio. Il secondo anno che ero a Bergamo. L’anno non avevamo centrato la promozione. Io e Caccia eravamo rimasti in rosa e quindi eravamo il simbolo di quel fallimento. Il precampionato fu difficile. I tifosi ci contestavano. Mi insultavano. Mi lanciavano di tutto, in ritiro.”

Si piega in avanti. Come si fa quando si racconta e si vuole essere certi che l’interlocutore capisca. Anch’io metto i gomiti sul tavolo, mi avvicino e ascolto.

“Volevo mollare. Durante l’intervallo di un’amichevole a Leffe, chiesi scusa ai compagni e al Vava e andai a fare la doccia. Non sarei mai più sceso in campo con l’Atalanta. Poi il mister, piano piano, mi rimise in carreggiata. Mi dimostrò la sua fiducia e mi convinse a rimanere.”

Immagino la faccia grezza del mister di Arcene. Zigomi a spigolo, bocca fine, fronte decisa e la parlata bergamasca che, con la sua schiettezza, dava al giovane Doni la responsabilità di una scelta importante. Quella di rimanere.

“Fu sul pullman, appunto, venendo allo stadio, una delle prime partite di campionato.
Vidi molti tifosi che andavano verso il Bortolotti con indosso la maglia con il mio nome. Quasi non ci credevo. Da lì nacque un affetto, sempre crescente, fino a passare, forse, il limite.”

Demasiado Corazón.
Quella era un’Atalanta che seguivo in po’ svogliatamente, troppo preso da altre faccende. Mentre il Cristiano Doni cominciava ad assorbire i colori di una maglia unica. Ad assumerne le dimensioni e le forme. A comprendere che, dopo un lungo girovagare, per il lavoro del padre prima e per il proprio poi, Bergamo sarebbe diventata casa sua. La terra dove affondare le radici della sua vita.
Era un’Atalanta bella, quella di Vavassori. Quella del primo Vavassori.
Giovani volenterosi ed esperti marpioni che ne avevano sposato la visione innovativa. Perché, come mi racconta Cristiano, aggrottando le ciglia, Vavassori, il primo Vavassori, era un vero innovatore. Non eravamo andati a San Siro da capolista per grazia ricevuta.

“Pista, pista, arriva la capolista.”

Se lo ricorda ancora bene, quel coro.
Era l’Atalanta di Ivan Ruggeri.
Si dice che la curiosità sia femmina. Forse, anzi sicuramente, è vero. Ma quella per il mondo che gravita dentro al calcio è una curiosità maschile. Così che mi spinge a sapere di più sugli uomini che hanno fatto quell’Atalanta. Quella delle due epoche di Doni. E lo voglio sapere usando come chiave Cristiano stesso, per farmi accompagnare in un percorso interno che altrimenti sarebbe stato inaccessibile.
Ivan Ruggeri e Antonio Percassi.
Due Presidenti con la P maiuscola. Due persone completamente diverse. Due rami distinti, ma dello stesso albero.

“C’era molta stima con Ivan. Anche con il resto della famiglia. Daniela. Ale l’ho visto crescere. Ivan era una persona schiva, ma ti dimostrava la sua stima. Con uno sguardo. Con un gesto, con mezza parola.”

I lineamenti del volto si sono fatti seri. E’ un’alternarsi di espressioni gioviali, segni di ricordi piacevoli, con altre più marcate, a sottolineare la profondità delle parole.

“Percassi è di un altro carattere. Intelligente e lungimirante. Capace di coinvolgerti nei suoi progetti. L’Atalanta di oggi dimostra quanto sia in gamba.”

Nei giorni di clausura forzata, imposti da una pandemia mai nemmeno immaginata, mi hanno dato la possibilità di incontrare, anche se solo in video, altri ex giocatori. Ricordo le parole di alcuni di loro, che orgogliosamente sottolineavano che l’Atalanta di adesso è figlia di quelle precedenti.
Cristiano Doni, invece, ho la fortuna di incontrarlo di persona e mi certifica lo stesso pensiero.
Due presidenti unici, che invidiano tutti. E Bergamo ne ha avuto uno dopo l’altro.
La curiosità, quella maschia, più che maschile, mi spinge oltre.
Vavassori, Del Neri, Colantuono, Conte.
Conte…

“Perché Conte?
In dieci anni di Atalanta l’ho avuto solo due mesi. E tu mi chiedi di Conte?
E’ una provocazione?”

Ebbene sì. Forse è una provocazione. Parlavamo di curiosità maschia, appunto. E capire come mai avesse fallito a Bergamo, ma poi avesse fatto una carriera folgorante mi ha portato ad osare un’entrata con il piede un po’ alto. E Cristiano non le ha mai fatte passare lisce le entrate a tacchetti in avanti.
Ma sorride, Cristiano. E’ abbastanza navigato.

“Conte è un grande allenatore. Ma è arrivato a Bergamo nel momento sbagliato. Soprattutto circondato dalla gente sbagliata. Non è un allenatore che deve subentrare. Magari, l’avessimo avuto fin dalla preparazione, sarebbe stata un’altra storia e magari non sarebbe stato così arrogante. Però, dell’esperienza di Bergamo ne ha fatto tesoro, intelligentemente, e i risultati gli hanno dato ragione.”

Riavvolgo il nastro.
Lascio la curiosità ad altri scopi. Mi interessa l’indagine. Cerco di ascoltare le parole, ma anche di guardare come escono dal perimetro di chi le pronuncia.
Così che Cristiano si ritrae sulla spalliera della sedia, quando lo spingo verso Genova. Verso l’addio all’Atalanta e tento di cavargli la confidenza se l’avesse considerato un addio o l’avesse accettato con il silenzioso patto di un arrivederci.

“Dopo una settimana volevo tornare.”

Demasiado Corazón.

“Eravamo retrocessi. Altro fallimento che ho sentito forte dentro il cuore. La società doveva cedermi, ma io non volevo. Mi presero per sfinimento. Accettai la Samp. Non sapevo se sarei tornato, ma dalla settimana successiva lavorai per ritornare.
Andai a Genova, ma lasciai la residenza qui. Come un lavoratore in trasferta. La mia decisione fu quella. La mia vita sarebbe comunque stata a Bergamo.”

Spesso sono altri fattori che determinano gli addii. O gli arrivederci. E la volontà, a volte, non basta.
Così, a Cristiano ci vollero quattro anni, prima di ritornare dalla sua Penelope. Due dei quali passati a Mallorca, calcando i campi della Liga.
L’terna discussione su quale sia il calcio migliore, fra la Liga e la serie A ha da sempre animato le discussione da bar.
Mi intriga l’idea di saperlo da dentro.

“Due tipi di calcio estremamente diversi. Almeno ai miei tempi.”

Certo. Perché seppur il fisico e la gestualità siano ancora quelle del ragazzotto, le rughe mi ricordano che Doni è più vicino alla mia generazione di quanto potrebbe sembrare.

“Tecnicamente, la Liga era di un livello dieci volte superiore alla serie A. Non eravamo in molti, a quel tempo ad essere emigrati in Spagna. Io, là in mezzo, ero uno dei tanti e non un top. Però, tatticamente la serie A era dieci volte superiore.”

Quindi, un pareggio sofferto.
Ma è l’esperienza in terra iberica che mi interessa e cerco di portarlo lì.
Gli torna il sorriso.

“Esperienza fantastica. Anche se ho faticato ad inserirmi nella mentalità di come si vive il calcio in Spagna. Soprattutto a livello professionale. La serietà con cui si scende negli spogliatoi, prima di una partita, che ho imparato e fatto mia durante tutta la carriera, cozzava con l’ilarità e la leggerezza che ho trovato là.
Comunque, io dall’Italia me ne volevo andare. Volevo staccare. E Mallorca mi ha dato la possibilità di rinascere. Di testa e di fisico, visto che arrivavo da un periodo di continui guai fisici. Quell’esperienza mi ha dato tanto. Ho imparato molte cose che poi mi sono servite al mio ritorno.”

FINE PRIMA PARTE

 

 

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