11/06/2020 | 14.00
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Demasiado Corazón (seconda e ultima parte)

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SECONDA PARTE

I ritorni non sono mai casuali. E nemmeno semplici.

“Feci una cosa spiacevole, per ritornare. Forzai la mano. Feci violenza anche a me stesso. Ma dovevo farlo, altrimenti il mio ritorno sarebbe saltato.”

Demasiado Corazón.
Da lì un altro Doni.
Più maturo. Più sentimentale. A volte più arrogante e più personaggio.

“Io mi stavo sulle balle, come carattere in campo.”

Da lì il Doni che divideva per sei giorni la settimana. Ma che univa la domenica. Il Doni capitano. Nel bene e nel male. Nel giusto e nell’errore. Nei difetti e negli eccessi.

“Io mi stavo sulle balle, come calciatore.” Ripete.

Anche agli arbitri, presumo.

“Ho spesso discusso con gli arbitri. Spesso sbagliando atteggiamento. Ma sempre perché non tolleravo la disparità di valutazioni in funzione della maglia che si indossava. Quella che indossavo io era la migliore del mondo e doveva essere trattata almeno come le altre più blasonate. Spesso ho detto in faccia all’arbitro: “già sono più forti, non c’è bisogno che li aiuti”. Prendendomi sempre la responsabilità di quello che dicevo.”

Responsabilità spesso comportano oneri. Come all’andata dello spareggio di Reggio Calabria. E quel giallo.

“Vuoi mettere???? Spalla contro spalla… Ritorno saltato.”

Eccola la faccia del Doni che vedevo in campo. Quell’espressione di disappunto e di cattiveria. Una componente del Doni che ha segnato un’epoca della sua squadra.
Abbiamo scoperto il nervo delle emozioni. Come si fa quando si parla di cose che stanno a cuore. E sul quel binario voglio farmi portare.
Il ritorno a Bergamo. Il centesimo gol. Il gol del record di miglior marcatore di tutti i tempi della Dea. Voglio sviscerare l’emozione. Ma non la voglio sentire. Gliela voglio vedere negli occhi.
Ma mi salta con un pallonetto e mi propone la sua vera grande emozione.

“Il gol a Palermo. Il primo dopo il mio ritorno. Ho pianto.”

L’avambraccio è scoperto. Gli noto la pelle d’oca. E’ la seconda volta che la vedo, in questo pomeriggio che volge a sera, con le righe d’acqua che scendono irregolari dietro il vetro che fa da cornice alla figura del mio interlocutore. La prima è stata quando aveva raccontato del pullman e dei tifosi con la sua maglia.
Emozione ed orgoglio spesso si prendono per mano. Soprattutto per chi non vive nell’olimpo e deve lottare ogni centimetro che conquista.

“L’emozione te l’ho raccontata. L’orgoglio è quello di essere arrivato in nazionale con la maglia dell’Atalanta.”

Demasiado Corazón.
E le retrocessioni? Cerco di capire cosa significhino, per un giocatore. Per lui.

“Un fracaso!” (termine spagnolo che significa un disastro anche emotivo, nda)

Leonardo Talamonti, quando lo incontrai attraverso una diretta video, mi disse che Cristiano avrebbe dovuto, o quanto meno potuto, fare una carriera più importante.

“Non sono d’accordo.
In molti me lo hanno detto. Ma non è vero. Io non sono un predestinato. Ho fatto la C2 da panchinaro. La mia testa è la mia forza. Mi ha portato a fare la serie A. Il mio carattere, forse, un limite.
Se avessi accettato le lusinghe di squadre più blasonate, e ce ne sono state, avrei avuto un altro curriculum, non un’altra carriera. Un curriculum con su scritti degli scudetti o delle partecipazione alle coppe. Ma non avrei fatto la carriera che avevo scelto per me. La mia carriera è stata quella che ho voluto. Che ho scelto.
Ogni salvezza era il mio scudetto. E lo sentivo così. L’Atalanta aveva uno degli ultimi monte ingaggi della serie A. Spesso venivano da noi giocatori scartati dalle altre squadre. Ma spesso, alla fine, uscivamo con una salvezza ottenuta con la grinta e con i denti. Per questo dico che ho vinto molto. E sono contento, perché l’ho scelto io.”

Le scelte sono come gli scambi delle ferrovie, una volta passato, non puoi più tornare indietro. Ma la vita è fatta di scelte. Di scambi, sulle rotaie, ce ne sono molti. Cerco di capire quella scelta che non rifarebbe e quella che invece, dolorosa, rifarebbe.
Si comincia a scivolare verso l’epilogo. Il pomeriggio è stato lungo. L’epilogo del pomeriggio e l’epilogo della carriera di Cristiano.

“Non rifarei la scelta di andarmene da Bergamo. Ma non dipese solo da me. Venni quasi obbligato, ma con il senno di poi mi batterei di più per rimanere.
Quella che rifarei, dolorosa, è quella che mi ha portato a ritornare dal Mallorca all’Atalanta.
Avevo l’accordo con l’Atalanta, il Mallorca lo sapeva e diceva che mi avrebbe lasciato andare. Però mi chiese pazienza fino a che avesse trovato il sostituto. Ogni amichevole scendevo fra i titolari e la fine del mercato si avvicinava. Capii che forse cercavano di farmi arrivare alla fine senza cedermi. Allora, prima dell’ultima partita amichevole, contro l’inter, stadio pieno, non mi presentai.
Feci una cosa che per me era inammissibile. Sapendo che avrei fatto del male anche ai miei compagni. Ma che prima di tutto andava contro il mio modo di intendere lo spogliatoio. Ma il fine era troppo grande ed ha giustificato il mezzo.
Da una parte sono contento, ma dall’altra mi brucia ancora aver fatto quel gesto.”

Demasiado Corazón.
Scelte. Gesti. Errori.
Quelli di Doni sono sempre stati fatti da protagonista.
Scelte. Gesti. Errori.
Sono quelli che segnano una carriera. Segnano una vita. Dividono le folle. Per sempre.
Come è finita la carriera di Doni sul campo lo sanno tutti. Lui in primis.
Non mi è mai piaciuto fare gossip. E non lo farò ora.
Qualcuno mi ha insegnato che gli errori sono come i fari abbaglianti di un’auto nel buio della notte. Tutti li vedono, ma solo pochi hanno la pazienza di strizzare gli occhi e ed aspettare, per vedere la macchina che sta dietro a quei fari. Non tutti giudicano quell’auto, bella o brutta che sia, dalla carrozzeria. Si limitano a giudicare i fari.

“Ho sbagliato ed ho pagato. Ho pagato da colpevole, non da innocente. Ho pagato un prezzo più elevato di quanto fosse il mio errore. Ma il vortice in cui sono finito era più grande di me. Avrei potuto cavarmela meglio? Forse sì. Ma ho fatto delle scelte e ci ho messo sempre la faccia.”

Quel gesto.
Mano sotto il mento, al alzare la testa.
Mi scorre qualche brivido.
Un gesto che avevo visto solo in televisione. Un gesto che ha spaccato il mondo atalantino. Un gesto con un solo significato, ma con mille sfaccettature. Un gesto che ora viene dedicato a me. Solo a me. Con un solo significato. Giudicami come meglio credi, questa è la mia faccia, non la tolgo.
Il mio giudizio non conta. Soprattutto non frega a nessuno.

“Comprendo che molta gente mi odi per quell’errore. Non posso cambiare il corso della storia, ma posso capire chi non lo accetterà mai. L’unico rammarico è che alcuni mi giudicano senza conoscere bene i fatti e fanno una grande confusione.”

Cristiano Doni è stato protagonista di più di due lustri di storia della Dea. Ormai è un uomo navigato, che ha pagato sulla sua pelle, senza sconti, le bruciature del suo errore. Ed ha capito che la cicatrice è l’unico aiuto, l’unica difesa contro il supplizio riservato ai grandi. Perché i grandi non hanno diritto all’oblio.
Cerco di capire a cos s’è aggrappato lui, nei momenti più difficili. Oltre alla famiglia.

“Favini, fino alla fine, mi ha detto che quando sbagliavo, succedeva per troppo amore. Queste parole non le scorderò mai.”

Demasiado Corazón.
I grandi non hanno diritto all’oblio. Allora, perché almeno non cambiare aria. Andare a rifarsi una vita da un’altra parte.

“Perché Bergamo è casa mia. Perché non ho mai deciso di scappare (anche se qualcuno usa delle immagini per dire il contrario).
E’ vero, nel momento più buio l’ho pensato, ma ho deciso di rimanere. Era l’unico modo per pagare fino in fondo il mio debito. A testa alta. In modo che tutti mi vedessero e giudicassero secondo la propria coscienza. Perché a Bergamo ho messo radici e ho ancora molto da fare e da dare. Perché Bergamo la amo.”

Demasiado Corazón.
Non è cupo Cristiano. Me lo racconta attraverso i lineamenti morbidi e un gesticolare armonioso. Per niente teso.
Chiama a casa, per avvisare la moglie che farà un po’ tardi.
Un po’ mi sento un intruso. Un po’ arrogante nel voler scavare nella storia dell’Atalanta di quel decennio usando come arnese di scasso la pazienza di quello che fu il suo capitano.
Cristiano Doni è un pezzo, ormai indelebile, dell’Atalanta d’inizio millennio. Ma l’Atalanta continua ed ora sta vivendo il suo picco mai raggiunto.

“E’ un piacere vederla giocare. Sono fortissimi. Incredibili. E’ un orgoglio per tutto il popolo bergamasco. Calcistico o meno.”

Mi piacerebbe capire se c’è un po’ di invidia, o di rammarico, per non essere nato una quindicina d’anni dopo, per finire dentro quella rosa. Ma Cristiano è scaltro e non ci casca facilmente. Però…
…Però a questa Atalanta mancano i gol su punizione.

“Ma, secondo te, a questa Atalanta servono i miei gol su punizione?  Questi segnano in tutti i modi possibili e immaginabili. Sono fortissimi. Sono cazzi amari per tutti gli avversari”

Lo dice da tifoso. Come l’avrei detto io.
Demasiado Corazón.
Il pomeriggio se n’è andato. La pioggia invece è rimasta.
La famiglia lo aspetta, ma ho la sensazione che la partita non sia finita.
Ci diamo appuntamento per il secondo tempo.
Magari davanti ad una birra. Magari a parlare di più della terra di Spagna, che ci promettiamo di raccontarci con più calma.
In auto mi accompagna un’esecuzione dal vivo di “Autumn leaves”.
Mentre il cielo, attraverso le nuvole e la pioggia, non racconta l’estate.
Mentre il tramonto mi ricorda che mi aspetta il viaggio di ritorno.
L’atmosfera del jazz mi fa pensare a cosa mi ha portato ad incontrare Cristiano Doni.
Lo capirò guidando nel buio. Con le note del pianoforte di Keith Jarret in sottofondo.
Ma forse lo so già.
Demasiado Corazón.

Rodrigo Dìaz

 

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