02/06/2017 | 10.56
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''Dovessimo vincere lo scudetto? ci ricaccerebbero indietro...''

Bella intervista del Mister apparsa nei giorni scorsi sul cartaceo della Gazzetta DS

 

La miglior Atalanta di sempre, per l’abbinata risultati ­bel gioco. Sarà dura eguagliare il lavo­ro di Gian Piero Gaspe­rini, a meno che non ci riesca lo stesso Gasp nella prossima sta­gione. E pensare che tutto era cominciato malissimo:

«Quat­tro sconfitte nelle prime cinque giornate», ricorda l’allenatore. Neppure quotavano il suo esonero. «Non ci pensavo. Sapevo di es­sere incappato in un misto di sfortuna ed episodi. La critica su di me era feroce, ma l’anno scor­so questa squadra a un certo punto aveva fatto sei punti in 14 partite. Noi alla sesta avevamo sei punti ed eravamo in linea con l’obiettivo di una salvezza tranquilla. Mi ha lasciato per­plesso che la vittoria di Crotone, quella che ci ha portato a quota sei punti, non abbia rasserenato la città».

Come ne siete usciti?

«La svolta è stata il successo col Napoli alla settima, ma alcuni giovani li avevo già lanciati la settimana prima col Crotone. Per esempio Petagna, in parten­za quarta punta».

L’Atalanta salvata dai ragazzi, un classico.

«Guardate che qui sui giovani c’era una forte resistenza, non era un contesto facile per lan­ciarli, tutt’altro. L’ambiente era conservatore sulle posizioni ac­quisite di giocatori di certa ma­turità e frenava. L’Atalanta ha sempre sfornato giovani di qualità, ma nella nostra situazione iniziale i ragazzi erano conside­rati come i giocatori numero 23, 24 e 25. Non vi dico le facce quando hanno visto Caldara e Gagliardini in formazione. Ver­so Spinazzola non c’era buona predisposizione. Io non ho guardato le carte d’identità, ho premiato chi andava più forte».

Poi, tutti sul carro.

«Polemiche e critiche si sono ri­baltate. Il bello di Bergamo è stato che poi tutti hanno spinto nella medesima direzione. È cambiato il modo di vedere le cose, anche da parte di chi non condivideva il nostro lavoro».

Unica macchia, la batosta per 7-1 a San Siro con l’Inter.

«Quel k.o. è stata la nostra for­tuna. Se avessimo perso in mo­do normale, non avremmo pro­dotto la grande reazione. Da lì in poi abbiamo staccato Milan, Fiorentina e la stessa Inter».

Il giovane che più l’ha sorpresa?

«All’inizio il più pronto era Kes­sie, l’avevo già visto a Cesena in B, dove aveva fatto un campio­ nato importante, e da subito avevo deciso di partire con lui. Altri hanno avuto un’evoluzio­ne superiore perché partivano da una base più bassa. Se devo fare un nome, dico Cristante, un italiano un po’ sparito, arrivato a gennaio per sostituire Gagliar­dini. Cristante ha fatto un finale di stagione notevole».

Ora viene il bello, l’Europa League. Come l’affronterete? Con spirito turistico o per competere? Non sarà facile gestire il doppio impegno.

«Non mi preoccupa l’aspetto tecnico, temo gli infortuni: al Sassuolo quest’anno ne sono capitati diversi. Non disponia­mo delle rose di Juve e Napoli e dobbiamo adeguarci, avere più giocatori di livello che pos­sano sostituirsi gli uni con gli altri. Per la società sarà uno sforzo, però la formula “più ti­tolari” non significa un grup­po di 30 giocatori. L’Europa per me sarà prioritaria. Vo­gliamo fare bella figura. An­dremo ovunque per giocare al meglio di noi stessi, per espor­ tare il nostro calcio, anche se l’Europa ci toglierà qualcosa in campionato»

Lei è stato ragazzo negli Anni Settanta, ha vissuto l’epopea dell’Ajax e dell’Olanda. Affondano lì le radici del suo calcio?

«Sì, ma per la mia generazione è stato cruciale Arrigo Sacchi. Arri­go dice che le sue squadre propo­nevano un calcio molto offensi­vo, in realtà quello che Sacchi ci ha insegnato è stata la fase difen­siva con uso di pressing molto in “alto” sul campo. Arrigo ha spo­stato la difesa in avanti. Anche nel Pescara di Galeone, dove io ho giocato, c’era questa cosa di uscire e pressare “alti”. Oggi di­stinguo due tipi di squadre: quel­ le che attendono l’errore dell’av­versario e quelle che vanno a con­quistare la palla. La mia indole mi porta alla caccia del pallone».

Una cosa sola non torna, la difesa a tre.

«Il più delle volte io sto a tre in fase offensiva. Quando difen­diamo, lo facciamo a nove, a dieci, a sei... Dipende da quanti uomini abbiamo “sottopalla”. Mi adeguo agli avversari, non sono di quelli che dicono: “Io guardo me stesso e basta”. C’è stato un periodo in cui questa forma un po’ presuntuosa ha preso piede, soprattutto a Mila­no. Forse è in uso ancora ades­so, la mania di considerare poco l’avversario e molto se stessi».

Si riferisce all’Inter, suo ex club?

«Non solo, penso ai discorsi sul­la difesa a quat­tro che è sintomo di Europa e sulla difesa a tre che è vecchia. Concetti folli, per me, però tale cultura mila­nese è stata mol­to sviluppata ne­gli anni. Credo che sia stata la difficoltà del cal­cio di Milano. Ci sono stati degli esempi calcistici molto belli a Carpi o a Crotone, piazze che non hanno le stesse risorse economiche. Oppure a Empoli. Questa cultura milane­se ha fatto il suo tempo. La Juve ha saputo adeguarsi con Conte e Allegri. Lì (a Milano, ndr) mi sembra che ci sia stata staticità, una difesa delle proprie convin­zioni che non ha aiutato».

Gomez è il giocatore più forte che abbia mai allenato?

«Ho avuto Milito, Palacio, Pe­rotti... Difficile stilare gradua­torie. Gomez era relegato sul­ la fascia: qui è diventato un ri­ferimento per la squadra, si è elevato a top player e lo dimo­stra il fatto che a 29 anni sia stato convocato nel­ l’Argentina. Ha cambiato modo di allenarsi, a fi­ne stagione an­cora pressa, cor­re e si diverte».

Perché Petagna segna poco?

«Grande attac­cante, per la quantità di lavoro che sbriga. Da fuori area segna e segnerà di rado, non è uno stoccatore. Petagna de­ve lavorare su se stesso nei se­dici metri, avvicinarsi al por­tiere, sfruttare palle vaganti e deviazioni, crescere negli smarcamenti. Per esempio Conti, un esterno, ha realiz­zato diversi gol nell’area pic­cola: è un rapace naturale.È fantastico che da terzino co­pra settanta metri ed entri in area per colpire. Se Petagna fa come lui, diventa straordi­nario, da grande attaccante qual è ora».

I suoi Oscar del campionato. Miglior giocatore?

«Mertens, che nel mio calcio starebbe benissimo».

Miglior giovane?

«Tutti quelli dell’Atalanta».

Miglior allenatore?

«Difficile».

Quasi tutti dicono Sarri.

«Allora dico Allegri, anche se la statuetta andrebbe assegna­ta a tutti e due. Allegri ha cam­biato la Juve sotto tutti gli aspetti, ha convinto Man­dzukic a svolgere quel ruolo».

Miglior squadra?

«La Juve, senza dubbio».

Lei è cresciuto nella Juve, ne ha allenato la Primavera: sogna ancora la Juve vera?

«Non più, oggi la cosa non è re­alizzabile, ma sono molto feli­ce lo stesso. Credo di essere in una società top, che aveva bi­sogno di alzare il livello della squadra. L’Atalanta non ha nul­la da invidiare a nessuno per consistenza e capacità della presidenza, per organizzazio­ne e strutture».

Come Bagnoli, lei ha fatto bene al Genoa e male all’Inter. A differenza di Bagnoli, non ha ancora vinto uno scudetto in provincia. Nel calcio di oggi un’Atalanta stile Verona ‘85 è un’utopia?

«Sì, se prima una provinciale aveva un 20 per cento di possi­bilità scudetto, oggi siamo al 2, cioé quasi niente. Troppa di­sparità economica. Chi sta die­tro di noi ha tre quattro volte le nostre risorse, ogni anno ha 100 milioni da spendere di suo. Paradossalmente è più tutelato chi retrocede, grazie all’inden­nizzo. Un brutto limite del no­stro campionato, si vuole man­tenere lo status quo. Se anche l’Atalanta vincesse lo scudetto, verrebbe rigettata indietro».

Da juventino, ha sbagliato ad andare all’Inter?

«No, l’inter era una bella idea e anche lì ho trovato tanta gente alla quale sono rimasto legato. È stata un’occasione mancata. Bell’ambiente, ma non è scoc­cata la scintilla. Diversità di concezioni in tema di allena­menti, gestione e tattica».

Le piacerebbe un giorno allenare la Nazionale?

«Un anno fa mi chiamò Lippi (allora d.t. azzurro in pectore, ndr) per dirmi che mi aveva proposto a Tavecchio quale nuovo c.t. assieme a Ventura e Montella. Scelsero Ventura e va bene così, mi sento ancora un allenatore da club».

 

Sebastiano Vernazza

Gazzetta DS

 

By staff
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