Hans Hateboer: “A Dublino la consacrazione del gruppo storico: sentivamo la vittoria, era il nostro momento”
Bergamo. La doppietta contro il Valencia negli ottavi di Champions League nel febbraio 2020 come punta dell’iceberg di sette anni e mezzo intensi, con 245 presenze, infinite sgroppate sulla fascia, innumerevoli cross e tanto, tantissimo fiato speso per la causa. Hans Hateboer è stato un punto fermo dell’Atalanta nell’era Gasperini, dal suo arrivo nel gennaio 2017 alla partenza nell’agosto 2024 con destinazione Rennes.
Un uomo spogliatoio, uno di quelli della “vecchia guardia” spesso menzionati come esempi virtuosi da Gasp, che nei momenti difficili ha tirato la proverbiale ‘carretta’. “I sogni sono diventati realtà, non potevo immaginare una fine migliore per il mio percorso a Bergamo” aveva sottolineato nel suo saluto sui social, facendo riferimento alla notte di Dublino. Quella stessa notte indimenticabile, indelebile, in cui è stato protagonista anche in campo dall’84’ in poi. Il coronamento di un percorso ideale che ricorda in esclusiva a Bergamonews ad un anno esatto di distanza.
365 giorni dopo, qual è l’immagine più significativa che ricorda di quella notte?
“Sono tante, davvero. Quando eravamo tutti insieme sul podio, il momento in cui abbiamo alzato la coppa al cielo. Ma anche i momenti immediatamente successivi, quando sono stato sul campo insieme alla mia famiglia, fratelli, genitori. Erano tutti lì, insieme a me: questo ha reso il momento ancora più bello. Ma ci metto anche il bus scoperto con i miei compagni: ci abbiamo messo 5 ore per arrivare da Città Alta allo stadio! Quel giorno è stato uno dei più belli della mia vita, Bergamo se lo meritava. E poi ripenso al nostro gruppo storico. Abbiamo passato tanti anni insieme, dall’inizio del ciclo, quando l’Atalanta non era ancora ciò che è adesso, non era conosciuta in tutto il mondo. Siamo stati insieme nei momenti belli e nei momenti difficili. Poi è arrivata quella vittoria. È stato qualcosa di speciale”.
Dopo Roma c’è sempre Dublino, si diceva…
“Ed è così, davvero. In hotel, dopo aver perso la finale contro la Juve, ci guardavamo negli occhio. Io, Toloi, De Roon, Pasalic, Djimsiti. Noi che ci siamo sempre stati. E ci dicevamo ‘ragazzi, non è possibile essere a questo punto tutti gli anni’. Avevamo fatto così tante cose belle, eppure non vincevamo mai. Tre finali di Coppa Italia perse. Tanti anni senza trofei iniziavano a pesare parecchio. Così ce lo siamo detti: ‘dobbiamo andare a Dublino e vincere’, sapevamo che vincere una coppa in Europa sarebbe valso più di ogni altra cosa e che avrebbe cancellato tutto il resto, le delusioni, le finali perse. Sarebbe stata la consacrazione”.
È stato determinante avere un ‘cuscinetto’ di mezzo a Lecce, quando avete conquistato la Champions League?
“Sì, soprattutto perché dopo Roma era stato deciso che non saremmo tornati a Bergamo ma saremmo andati direttamente a Lecce. E per questo eravamo ancora più arrabbiati: dovevamo stare in albergo, poi andare in Salento. Praticamente siamo rimasti fuori casa per cinque giorni: siamo partiti il martedì mattina per la finale di Coppa Italia e abbiamo giocato sabato nel tardo pomeriggio in campionato. Quasi una settimana lontani dalla famiglia. Alcuni miei compagni, squalificati per la partita di campionato, erano rientrati a Begamo, mentre qualche ragazzo della Primavera e dell’Under 23 si è aggregato a noi. Ci siamo allenati il giorno dopo la finale a Roma, all’Acqua Acetosa: un’ora in campo, ma il morale era basso. Era tutto molto strano, ma è stato in quei momenti che è nata la vittoria di Lecce che ci ha portato in Champions. Abbiamo cambiato tanto nella formazione titolare, per cui c’erano la giusta freschezza, la giusta fame, la voglia di ripartire subito. Abbiamo dato la giusta spinta per riattaccare la spina verso Dublino, anche se dopo la vittoria c’erano sentimenti misti: un po’ ancora il dolore per la finale persa, un po’ la gioia per il primo obiettivo raggiunto”.
Anche perché di tempo per pensare ne avete avuto sempre poco, visto che da metà febbraio a fine maggio avete giocato sempre, costantemente ogni tre giorni.
“E ci ha aiutato veramente tanto. Più giocavamo, più stavamo bene. La squadra l’anno scorso aveva tanta qualità anche in panchina: con così tante partite c’era davvero bisogno di tutti, quindi lo spazio aumentava. Nello spogliatoio c’erano meno giocatori delusi, perché dovevamo inseguire tanti obiettivi e serviva il contributo di ciascuno di noi, quindi la formazione cambiava inevitabilmente quasi ogni partita. Ognuno ha messo davvero il suo mattoncino”.
Non possiamo non aprire questa parentesi: Anfield.
“Molto semplicemente: è stata la notte in cui abbiamo capito che potevamo fare tutto, che potevamo arrivare fino in fondo ad ogni competizione”.
Anche battere un Bayer Leverkusen che fino a quel giorno era imbattuto?
“Torno all’hotel, dopo la finale di Coppa Italia. Ce lo siamo detti: non potevamo perdere quattro finali su quattro. E poi loro avevano vinto la Bundesliga, stavano per vincere la Coppa di Germania, non avevano mai perso una partita. Prima o poi doveva succedere. Insomma, lo sentivamo: era arrivato il nostro momento. Col passare dei giorni è cresciuta dentro di noi quella convinzione che avevamo dalla vittoria contro il Liverpool, di avere i mezzi per battere chiunque. E lo percepivo già nelle ore prima della finale di Europa League: eravamo tutti convinti di vincere, lo pensavamo e si vedeva. C’era un sentimento diverso rispetto alle altre finali. Io nel 2015 con il Groningen ho vinto anche una Coppa d’Olanda: nove anni dopo percepivo nei miei compagni la stessa sensazione di vincere. Me lo sentivo”.
Come avete vissuto la vigilia?
“Molto particolare, ma davvero. C’è un aneddoto racconta bene quel giorno. Siamo arrivati allo stadio per l’allenamento, al pomeriggio, in pullman. Erano da poco passate le 16. Djimsiti e De Roon erano in conferenza stampa con Gasperini. Dovevamo allenarci dalle 17:15 alle 18:15, ed era interamente a porte aperte, non solo il primo quarto d’ora come al solito. Quando il mister lo ha scoperto si è infuriato e ha voluto cambiare il programma. Così siamo scesi in campo, abbiamo fatto un po’ di riscaldamento, esercitazioni di possesso palla, qualche tiro in porta. Sarà durato una quarantina di minuti. Poi siamo rientrati negli spogliatoi, abbiamo preso la nostra roba, siamo risaliti sul pullman senza neanche farci la doccia e abbiamo attraversato la città facendo mezz’ora di pullman prima di raggiungere un altro campo, penso fosse veramente dall’altra parte di Dublino. Siamo scesi e abbiamo continuato lì l’allenamento, abbiamo fatto una parte di tattica senza nessuno intorno. Ma è durato veramente poco! E poi siamo tornati in albergo. Fa sorridere dirlo, ma ho pensato ‘per vincere dobbiamo fare tre gol’. Ci ha pensato Lookman”.
Concludiamo tornando alle 22.52 del 22 maggio 2024. Quale è stato il suo primo pensiero in quell’esatto momento?
“Ero entrato da poco, per giocare gli ultimi minuti. Al fischio finale mi sono lasciato andare, mi sono sdraiato sull’erba e ho visto passare davanti a me tutti gli anni che abbiamo passato insieme. Chi se n’è andato, chi è rimasto, noi del gruppo storico che ci siamo sempre stati. Tanti sorrisi, tante lacrime di gioia. Le sconfitte, le vittorie, le finali perse, i momenti belli e quelli brutti. È stato qualcosa di speciale, che non so descrivere. Mi viene ancora la pelle d’oca se ripenso a quell’emozione. Ci siamo guardati negli occhi, noi che eravamo a quel tavolo in hotel dopo Roma: dopo tanto lavoro, avevamo coronato il nostro sogno. Finalmente ce l’avevamo fatta”.
fonte bergamonews.it
