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Il “Pájaro” Caniggia, gioia incarnata

Da ULTIMOUOMO.COM

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Il settembre del 1990 è un mese di nuovi auspici, ma anche e soprattutto di conflitti. Saddam Hussein si ostina a non abbandonare l’occupazione del Kuwait, mentre Bush e Gorbaciov – riuniti a Helsinki – scelgono la maniera più mansueta di spartirsi l’influenza sull’Europa, che punta verso l’unione monetaria – ma è, ovviamente, divisa sulla posizione dell’Italia, che se non sanerà le sue finanze pubbliche sarà estromessa.

La seconda domenica del settembre del 1990 è anche quella in cui ricomincia il campionato di Serie A dopo la sbornia Mondiale. Almeno su questo sono tutti d’accordo: «Tutti all’attacco di Maradona», recita la prima pagina del Corriere. Si corre anche il GP di Monza.

A Bergamo, nella sua gara d’esordio, l’Atalanta sfida il Bari. Al terzo minuto del secondo tempo Paulo Evair aggancia un pallone maldestro sul cerchio di centrocampo, punta l’area avversaria e una volta sulla trequarti disegna con l’esterno destro un lancio delicato e sensuale come un ondeggiamento di piume di una ballerina al sambodromo di Rio. Il pallone rimbalza una volta, non fa in tempo a ripetersi che il numero 11 atalantino la addomestica, prima di spedirla in gol con un diagonale chirurgico.

 


Claudio Paul Caniggia, il 9 Settembre del 1990, è probabilmente il calciatore argentino più amato, dopo Diego Armando Maradona, per tutta una serie di ragioni che saranno evidenti più avanti. Con Diego condivide però anche un altro – chissà quanto invidiabile – status: quello di essere detestato da un’intera nazione, quella nel cui campionato gioca. Perché: ci arriveremo. Detestato ovunque tranne che nell’enclave d’amore che l’ha adottato, Bergamo.

 

Non era il primo argentino ad aver vestito la maglia della Dea, non sarebbe stato l’ultimo. C’era già stato, a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60, Humberto Maschio. Ma Claudio Paul Caniggia era tutt’altro fenotipo, lontano dallo stereotipo del pibe cara sucia, con un volto angelico, un’attitudine da rocker, la corsa leggera. Era stato il killer delle Notti Magiche: con un suo gol l’Argentina aveva pareggiato temporaneamente la semifinale di Napoli, nella quale poi l’Albiceleste avrebbe sconfitto l’Italia ai rigori. I tifosi dell’Atalanta, che lo avevano accolto nella stagione preparatoria al Mondiale, si inventarono un coro che l’avrebbe accompagnato per sempre: «Vola, Caniggia vola, elimina l’Italia, e portaci in Europa, col sachelì de coca…». Anche alla coca ci arriveremo.

 

«I bergamaschi sono stati gli unici», avrebbe detto lui, «insieme ai napoletani, a festeggiare anche se l’Italia era stata eliminata».

 

Hijo del viento

È nato a Henderson, panorama che più che in Argentina sembra di essere in Maine, a metà strada tra Buenos Aires e la Cordigliera delle Ande. Gioca a pallone, come tutti i ragazzini che crescono in contesti rurali, tra roveti e agnelli al pascolo, in potreros sui quali la sfera rimbalza un po’ come le pare. In quegli spazi sterminati si sviluppa un’inconsapevole predisposizione alla corsa. Claudio correva i cento, i duecento, i quattrocento metri. Fa salto in lungo. Ma non ha una corsa armoniosa, «mi dicevano che correvo rappreso, che mi ingobbivo ma io lo facevo per prendere velocità, e per non farmi acchiappare dai rivali». Ne sarebbero rimaste reminiscenze nel suo stile di gioco successivo.

 

Si trasferisce presto a Buenos Aires, per giocare nelle giovanili del River Plate. Per arrivare in prima squadra fatica un po’, ad aiutarlo c’è l’inatteso endorsement di Carlos Bilardo, all’epoca CT della Nazionale. A Héctor Veira, allenatore del River, dice «che fai, non lo metti in prima squadra?». Bilardo, che usava le categorie inferiori dei Millonarios come sparring partner dell’Argentina prima della spedizione mondiale dell’86, lo conosceva meglio di lui. Jorge Dominici, ex difensore del River, gli aveva cambiato ruolo: da interno con spiccata propensione offensiva l’aveva trasformato in un wing, in un’ala. Una posizione più adatta al suo gioco rock’n’roll. Come una pietra scalciata, quando affondava sulla fascia diventava imprendibile.

 


Con la prima squadra esordisce nell’’85, il 15 Aprile. Per il primo gol dovrà aspettare due anni. Non segnava molto, Cani. Ma quando partiva, sull’esterno, o dall’esterno, ricordava “el loco” Houseman, e tutta la pletora di ali offensive che in Argentina sono sinonimo di irrefrenabilità, anarchia, irriconducibilità ai canoni. Ma soprattutto, per la maniera di correre, per il suo incedere come sulle punte, come una ballerina, come se fosse troppo più leggero dell’aria per toccare il suolo, lo chiamavano Il Figlio del Vento, come Carl Lewis. Oppure “Él pájaro”, l’uccello.

 

Nel 1987 sulla panchina del River c’è Carlos Griguol. Che lo centellina, perché – dice – sa di non poter contare su di lui sul raggio lungo di una partita intera. Caniggia è un giovane carismatico, assai spinto dai quotidiani. Forse per il suo fascino. «Non sono un’invenzione di nessuno», dice lui. «Dico solo che ho una fiducia pazza in me stesso, e che se mi daranno continuità dimostrerò di non essere un pallone gonfiato». Griguol, però, non si fida. Parla anche con il padre di Caniggia, gli chiede di limitare le uscite, di controllarlo.

 

A fargli prendere coscienza di cosa significhi essere un giocatore del River è “Beto” Alonso, una delle glorie più brillanti dei Millonarios. Quando si incontrano, nel casino del Mar del Plata, all’una del mattino, “Beto” gli confida «tu devi renderti conto di cosa significhi portare la maglia del River. Sembra che non ti faccia né caldo né freddo». C’è chi dice che la conversazione terminò con Caniggia che, dando le spalle a “Beto”, se ne va. Irrispettoso? Irriverente? Può darsi. La sua testa era già altrove.

 

Cruzar el charco

Si diceva ci fosse la Juventus, sulle sue tracce. Oppure la Roma, che nell’’88 sembrava averlo già comprato per due milioni di dollari. El Gráfico lo ritrae con la maglia bianconera. A Claudio Paul Caniggia non interessa, molto, quale sia la squadra che lo contratterà. Sa già che vuole andarsene dall’Argentina. E se si tratta di firmare per un’italiana, meglio. Perché in Italia c’è già Diego. Perché l’Italia, ora, è il posto in cui farsi trovare.

 

È l’Hellas Verona, alla fine, a piazzare il colpo. La Roma ritarda un pagamento, il presidente del River Santilli perde la pazienza e lo vende al miglior offerente, che è il Verona, appunto, per due milioni e mezzo di dollari. Gli Scaligeri gli offrono un appartamento, una macchina di lusso, una Alpine-Renault. Dopo poco più di un anno, sarebbero andati in bancarotta.

 

Intanto, però, Caniggia arriva nella città dell’Arena con un look da rockstar, lo presentano come un “Fanna coi capelli”, che è piuttosto eloquente. Carismatico, se vogliamo un po’ spaccone, i capelli lunghi e tinti, sempre vestito con jeans e scarpe da ginnastica. Caniggia ha uno stile che non lascia indifferenti, fuori e dentro dal campo, dove corre a una velocità pazzesca, mettendo in mostra un’audacia, una sicurezza dei suoi mezzi, che sfiora l’alterigia. Caniggia è puro istinto.

 

Il Guerin Sportivo intervista in esclusiva Diego. Che decide di parlare di Claudio, compagno del fratello Hugo al Preolimpico in Bolivia nell’87. Dice: «Ancora non è arrivato in Italia e Caniggia ha già la fama dell’antipatico. È arrivato il messaggio che sia pazzo. Beh, noialtri diciamo loco ma bisogna contestualizzare. Caniggia è fortissimo».

 

Attorno aveva l’aura dello scavezzacollo: d’altronde era molto giovane, e molto sicuro di sé. Quando gli chiedono se non sarebbe stato meglio aspettare qualche anno, magari il momento in cui nessuno avrebbe avuto più dubbi su di lui, quando nessuno si sarebbe più chiesto se casomai non fosse un bluff, risponde di essere felice, di preferire arrivare in Italia subito. «E non è solo questione di soldi. Se avessi aspettato, mi avrebbero venduto al doppio».

 

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In Italia Caniggia sceglie di approdare soprattutto per guadagnarsi la Nazionale. Un posto al Mondiale di Italia ‘90. È già stato protagonista al Preolimpico boliviano dell’87, l’unica clausola che esige venga messa nel suo contratto con il Verona è che lo lascino rispondere alle convocazioni dell’Albiceleste, senza opporsi. «Arriverò al Mondiale con due anni di esperienza europea, giocando nel paese ospitante, servirà molto a Bilardo».

 

Sorrideva difficilmente, si concentrava prima della partita per cinque minuti, diceva di non aver bisogno di più tempo. Sembrava davvero focalizzato. L’impatto con il calcio italiano però è tremendo, i carichi di lavoro inediti. Venti giorni di ritiro, in montagna. Tre allenamenti al giorno. A fine giornata parla con Pedro Troglio, «ti senti anche tu o sono solo io a stare così?». Cenavano e andavano a dormire alle otto.

 

Il Verona di fine anni ‘80 non è già più la corazzata che a sorpresa ha vinto lo scudetto del 1984. In panchina c’è sempre Osvaldo Bagnoli, intransigente, a tratti scorbutico, che per proteggere i suoi giocatori arriva a proibirgli di frequentare la movida veronese, che invece è piuttosto vivace, agitata soprattutto da un agent provocateur esuberante, PR per un beauty center della città, che è riuscito a fare del salone del quale cura la comunicazione un ritrovo di vip, calciatori e showgirls: si chiama Dario Mora, ma si fa chiamare Lele.

 

Scrivono i giudici: «Un’attività gaudente, i cui ingredienti tuttavia non erano solo feste o ragazze facili, ma anche la droga». Tra i clienti di Mora, secondo le intercettazioni dei carabinieri, Patty Pravo e, appunto, Claudio Caniggia. Le telefonate più compromettenti, che metteranno nei guai tanto Mora quanto l’attaccante argentino, partono da un ristorante del centro, nella notte dopo la partita tra Verona e Napoli. Alla festa di Mora c’è anche, invitato speciale, Maradona.

 

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Sono passati una manciata di mesi da quando è arrivato in Italia. In campo, prima di finire coinvolto in giri poco raccomandabili per la sua carriera, però, si è già fatto notare. Il primo gol in Serie A lo ha segnato scattando sul filo del fuorigioco, con quella sua postura ingobbita, prima di chiudere con un pallonetto, contro il Milan, che era campione in carica. «Dovevo essere molto rapido, approfittare di quel metro e mezzo che appariva all’improvviso. Le difese italiane erano le più difficili del mondo da affrontare, chiuse, sempre molto attente». «Dovevi muoverti molto, altrimenti ti sbranavano».

 

A gennaio Caniggia è ormai l’idolo di casa, ha sostituito nei cuori dei tifosi veneti Elkjaer. A Bologna si scontra con Ivano Bonetti, si frattura il perone, si distorcono i legamenti della caviglia. Rimarrà fuori tre mesi, ma per Bagnoli sarebbe stato meglio averlo a disposizione, quantomeno per poterlo controllare.

 

A maggio i rapporti sono tesi, si parla di rottura: Bagnoli, a Cesena, lo utilizza solo per mezz’ora, infastidito dal fatto che nonostante la ripresa dall’infortunio non fosse ancora completa aveva deciso di partecipare a un’amichevole di beneficienza, a Terni, tra Italia e Argentina (Caniggia aveva segnato tre gol, e l’Italia in realtà era la Ternana, con in porta Tacconi). La separazione diventa inevitabile.

 

Dea

«Mi dicevano che sarei potuto arrivare a squadre più forti. Ed è vero. Ma era un calcio diverso, il tetto massimo di stranieri rendeva tutto più difficile. Guarda Junior: ha giocato con Pescara e Torino. Francescoli, uno dei migliori che abbia mai visto? Cagliari. Zico all’Udinese. Maradona non è andato né al Milan né all’Inter né alla Juventus, ma al Napoli. Ramón Diaz, uno dei migliori difensori che ho visto nella mia vita: all’Avellino, se n’è andato!».

 

Nel parlare del suo trasferimento all’Atalanta, Claudio Caniggia cerca un’assoluzione innecessaria. Ma il suo calcio indecifrabile, un po’ anarchico, sicuramente geniale non avrebbe potuto trovare terreno migliore, su cui attecchire, di Bergamo. Per l’Atalanta fu una specie di vendetta, di soddisfazione posticipata: nell’’84 stava per acquistare Elkjaer, che invece finì al Verona. L’acquisto – non poi così caro, per gli standard dell’epoca, costato 300 milioni – aveva in un modo o nell’altro riequilibrato il karma.

 

A Bergamo, sulla panchina, siede Emiliano Mondonico: «ci lasciava il martedì libero e scappavo a Montecarlo. Il mercoledì mattina alle 6.30 partivo: due ore e mezza per arrivare a Bergamo, con la Porsche, a 240 km all’ora». E le volte che arrivava in ritardo diceva di aver trovato traffico a Colognola, in periferia di Bergamo.

 

 

Foto di Alessandro Sabattini / Getty Images.

 

Con Paulino Evair e Glenn Peter Stroemberg, alla sua prima stagione nella Dea, avrebbe trascinato la squadra al settimo posto finale, qualificandosi per la Coppa UEFA. Sono una coppia atipica, l’argentino e il brasiliano: Evair non ride mai, la saudade se lo mangia, ed è molto sensibile alle critiche dei giornali. Caniggia, al contrario, è coraggioso, veloce, sfrontato. E ha una fame di affermazione senza eguali: quella è la stagione d’avvicinamento al Mondiale, che vuole giocare da protagonista.

 

Con la sua rapidità affonda, vince i rimpalli, arriva per primo sulle ribattute. Segna in affondo, con scatti brucianti; ma anche con tempismo da centravanti d’area, o con grandi elevazioni, un tempismo e una fulminanza bruciante nello stacco di testa inedito, fino ad allora. Avremmo imparato a conoscere l’intero bouquet, tutt’altro che limitato, delle sue giocate.

 

Contro la Roma segna un gol molto simile al suo primo in A, contro il Milan: ma a riguardare questa, di azione, sembra quasi che proceda a velocità doppia rispetto agli avversari, per poi rallentare – un tempo che si raggruma e dilata – quando il pallone sbatte sul palo, prima di entrare in rete.

 

Si lamentava anche molto, però. Di giocare fuori ruolo, per esempio. Troppo centrale, lui che amava partire larghissimo dalla fascia sinistra per poi convergere.

 

E Grondona, il Presidente della Federazione Argentina, si lamentava di lui, della sua vita sregolata, minacciando di lasciarlo fuori dalla lista dei convocati mondiali. Le critiche sembravano non abbatterlo: al contrario, erano combustibile. «Nel campionato italiano oggi sei Gardel e domani ti ammazzano», diceva.

 

Quando Bilardo presentò a Maradona l’opportunità di lasciar fuori Caniggia, sotto pressione federale, si dice che Diego abbia risposto «se Caniggia resta fuori, allora siamo in due». «E smettetela di rompere i coglioni, Carlos». Era un’alleanza che trascendeva l’affiatamento in campo, forse. Il riconoscersi simili nell’attitudine, nell’atteggiamento, la stessa maniera di affrontare gli osteggiamenti.

 

Diversamente da Diego, però, Caniggia era taciturno, diffidente, per quanto sempre sicuro di sé: la sua principale tattica, come scriveva Gianni Ranieri su La Stampa nel 1992, era quella «di non avere tattiche: non sono io che devo adeguarmi, si adeguino gli altri».

 

C’era qualcosa di malinconico, ma di una malinconia rabbiosa, nel suo modo di stare in campo, che però non contrastava la leggerezza della corsa: lo assimilava di più al vento che soffia sulla pampa. Nelle esultanze, a differenza di quanto capitava nel gioco, non correva mai: si fermava, camminava. Era il momento in cui forse realizzava dentro di sé la gioia della calma. E poi batteva le mani, come il batterista di un gruppo rock dopo l’assolo conclusivo, e prima di iniziare un nuovo pezzo.

 



 

Era, nella sua essenza più profonda, disequilibrante. La velocità la turbina d’accelerazione delle situazioni, il suo compito prevederne – e gestirne – le conseguenze. Con questa forza interiore sarebbe arrivato a disputare Italia ‘90.

 

Decíme que se siente

L’Argentina di Italia ‘90 era una squadra poco lucida. Difensiva fino all’esasperazione. Con un faro, ovviamente, che era Diego. Ecco: se dovessimo provare a dare prosecuzione alla metafora, dovremmo dire che Caniggia, di quel faro, era il fascio di luce proiettato in lontananza.

 

Arrivava non proprio da sorpresa assoluta, ma da outsider. Da mina vagante. Aveva la vis di chi non teme, né rispetta, nessuno. Aveva segnato 10 gol nella stagione appena finita, ma sarebbe stato in grado di sostituire Valdano? Il nuovo Diego, quella dalle caviglie di cristallo, mezzo malandato, aveva bisogno di qualcuno da lanciare in profondità. Non poteva più dribblare tutti gli avversari: Caniggia sarebbe potuto essere il suo braccio armato?

 

Nella partita inaugurale, persa dall’Argentina contro il Camerun, inserito nel secondo tempo causa l’espulsione di due rivali. Lo stesso fa nella partita successiva, contro l’Urss, provocando il rosso a Bessonov. Sembrava irrefrenabile, inarrestabile. Quando avrebbe anche trovato il gol, l’Argentina avrebbe potuto celebrare la sua nuova punta di diamante. Il gol sarebbe arrivato nel contesto più mitopoietico possibile.

 


«È il gol più importante della mia vita. Non posso dedicarlo a nessuno, voglio solo condividerlo con il gruppo. Carlos mi ha chiesto sacrificio, che giocassi solo in avanti. Che non rientrassi. Ho obbedito. Così Diego ha potuto arretrare il raggio d’azione di qualche metro».

 

La rete segnata al Brasile, negli ottavi di finale, eleva Claudio Paul Caniggia a un rango mitico, insperato, le cui reminiscenze si sarebbero riverberate in eterno. Caniggia è lo sberleffo reiterato, il marchio indelebile: Brasil, decíme que se siente… Che si prova a essere dribblati da Maradona, e purgati dal Cani? Ma potrebbe essere ancora più interessante porci un’altra domanda: cosa sente, Caniggia, in quel momento? E quando nella partita successiva, con un colpo di testa, a metà del secondo tempo, buca la rete dell’Italia, pareggiando la partita, trascinandola ai rigori, in quel momento: cosa sente? E a sette minuti dal termine, quando si becca un cartellino giallo che lo avrebbe escluso dalla semifinale?

 

«La colpa è dell’arbitro. La palla me l’aveva passata un mio compagno, nessuna giocata pericolosa… Non sapevo esistesse questa regola, e poi lui doveva saperlo che avevo già un cartellino giallo accumulato… Volevo uccidermi. Volevo ucciderlo. Gli ho detto di tutto, gli ho mandato Jorge (Burruchaga) che parla francese…».

 

L’immagine dell’Olimpico di Roma, in qualche modo, è straziante. È il giorno della finale. Un giocatore nel pieno della sua carriera osserva dalla panchina la partita più importante della sua vita. Sa che non potrà entrare. Si morde le unghie.

 

Complotto?

La stagione successiva al Mondiale di Italia ‘90, quella che Caniggia apre con un gol al Bari, da odiato e amato nella stessa misura, è quella della conferma. L’Atalanta non riesce ad andare oltre i quarti, in Coppa UEFA, eliminata dall’Inter (che poi vincerà la doppia finale contro la Roma). Segna 10 gol, tutto lascia presagire l’esplosione definitiva. L’Atalanta chiede dodici miliardi. Si interessano a lui il Napoli, l’Olympique Marsiglia. Un giornalista del Guerin Sportivo gli chiede «ti consideri un fuoriclasse o solo un buon giocatore?». «In questo momento penso di essere fra i dieci calciatori più forti del mondo».

 

La Roma, rilevata da Ciarrapico dopo la scomparsa di Dino Viola, chiude il trasferimento di Caniggia per dieci miliardi. Tre anni dopo averlo trattato per due, quando era ancora un giocatore del River. Al suo posto era arrivato Renato Portaluppi.

 



 

A Roma non riuscirà mai ad affermarsi del tutto. Problemi di inserimento, l’impossibilità di riaffermarsi ai livelli del Mondiale. Nel 1993, alla sua seconda stagione, viene sospeso per 13 mesi per consumo di cocaina, o forse crack, non che importi molto. Il suo amico Diego, che ci era già passato, che per la stessa ragione aveva abbandonato l’Italia, tornò ad essere il suo sodale, l’altra metà della sua mela platonica: «È giunto il momento che gli argentini si rendano conto: quando sostenevo che ci avrebbero fatto pagare l’eliminazione dell’Italia dai Mondiali non era un capriccio, ma la verità. E adesso fanno pagare a Caniggia il gol che ha buttato fuori l’Italia dai Mondiali». «È per questo che chiedo al Governo di adoperarsi per far rispettare i calciatori argentini che giocano in Italia. Anzi, direi a chi ci governa di indagare sugli italiani che lavorano nel nostro paese».

 

La squalifica di Caniggia sarebbe finita nel Maggio del 1994. Un mese più tardi, piuttosto a sorpresa, il “Coco” Basile avrebbe riunito il duo, Diego e Cani, Cani e Diego, per l’ultimo canto del cigno di un sodalizio ormai lanciato verso il viale del tramonto. La coda sentimentale si sarebbe propagata, per qualche tempo, anche alla Bombonera, prima che Caniggia arrivi a farsi mettere fuori rosa dal presidente Macri. «Caniggia non ha avuto nessuno scontro con me; ha avuto uno scontro con la vita».

 

Volver (con malinconia)

«Sarei potuto andare altrove, certo, guadagnare più soldi. In Arabia, in Turchia, in Messico. Ma ho deciso di tornare qua perché conosco il paese come fosse casa mia, per tornare a giocare a un livello di competitività molto alto. Qua nessuno ti regala niente. Neppure un centimetro. Avrei potuto scegliere una destinazione con meno pressioni e urgenze. Ma volevo questo.».

 

Anche le giustificazioni del ritorno a Bergamo, dieci anni dopo, suonano in qualche modo assolutorie, anche se per ragioni diverse. Il Caniggia che torna a vestire la maglia della Dea è il protagonista imbolsito di un’operazione simpatia senza molto senso agonistico, in effetti.

 

«Non sono venuto a Bergamo per cazzeggiare. Dopo tutto quello che mi è toccato vivere al Boca negli ultimi mesi, qua sto una meraviglia». Accomodante, non lo è mai stato. Ha sempre detto quello che pensava, Caniggia. Per questo, forse, Maradona lo trovava così vicino a sé. «Non andiamo dietro al potere leccandogli il culo», disse Diego. «Così certo è più difficile, ma molto meglio. E per farlo bisogna avere la testa fredda, ma il cuore caldo».

 

Anche a dieci anni di distanza, però, Caniggia risulta antipatico. Un po’ folle, incontenibile. Ha accumulato tantissima esperienza, ognuna diversa. Ha giocato per il Benfica, poi in Scozia, dove al Dundee sembrava avesse imboccato il viale del tramonto, e invece passando poi ai Rangers è risorto. E il Boca.

 

Però continua ancora a essere, nel profondo, il ventenne Figlio del Vento, non solo in campo, affascinato e schiavo a un tempo della velocità, del turbinare al quale è sottoposto il vento. «Una mattina sto andando al campo e a due km dal centro sportivo Cristiano (Doni) mi sorpassa. Suono il clacson: «Dove vai? Se accelero ti caghi sotto!». Inscenano una gara: si superano, si controsorpassano, Caniggia entra a Zingonia a tutta velocità, parcheggia di fianco a Vavassori, l’allenatore, che ha appena parcheggiato il suo Panda. Vavassori urla: «Nooooo!». Cristiano Doni ha investito il suo cane da caccia. E Vavassori è furibondo. Incazzato se ne va, saluta tutti: «L’allenamento fatevelo da soli, vado dal veterinario». E sparisce fino al giorno dopo.

 

L’esperienza bergamasca finirà mestamente dopo 17 partite e un gol. «Non sono un giocatore da Serie B. Ci sono calciatori bravissimi nel torneo cadetto, ma irriconoscibili in Serie A. Io, al contrario, non sono adatto alle categorie minori», ha detto anni dopo.

 

I ricordi sono complicatissimi da rinverdire, a volte ci si ostina nella speranza che possano tornare a rivivere i fasti di una volta. Caniggia è morto e risorto, calcisticamente, appena un paio di volte. A Bergamo la resurrezione non è riuscita, ma il suo ricordo ancora oggi rievoca fasti di un’epoca mitica, che la Dea ha probabilmente ormai somatizzato, e sorpassato, con le prestazioni degli ultimi anni.

 

E chissà che Bergamo non sia davvero l’unico posto nel quale Claudio Paul Caniggia, durante tutta la sua carriera, una parabola che non si è lasciata atrofizzare dai what if ma li ha invece cavalcati, vivendoli appieno, si sia mai chiesto, con un dubbio sul proprio ruolo al mondo irriconoscibile, «ma che cazzo ci faccio, qui?».
By marcodalmen
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