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Il tempo effettivo è un problema degli allenatori?

Partite di 60 minuti, il calcio medita un golpe - Il Secolo XIX


Pioli ha sollevato un problema giusto, ma dal lato forse sbagliato.




Ai margini della sfida alla Juventus, l’allenatore del Milan Stefano Pioli ha parlato del tempo effettivo. Le sue sono state considerazioni spontanee, non stimolate da alcuna domanda da parte degli intervistatori, ma hanno ottenuto nei giorni successivi il consenso dei suoi colleghi, in primis quello dell’allenatore dell’Inter Simone Inzaghi.







Pioli ha poi fatto un appello ad allenatori, calciatori e arbitri: crescere in mentalità e cultura per avere uno spettacolo migliore per il pubblico.

L’attenzione dei media o degli addetti ai lavori al tempo effettivo nel calcio, come tutte le cose, è ciclica. Ne ha parlato Marco van Basten, che dal 2016 al 2018 è stato direttore tecnico della FIFA. Van Basten nel ruolo dirigenziale ha avuto addirittura più fantasia che da calciatore, e le sue proposte sono state spesso oggetto di dibattito. La più famosa riguardava l’abolizione totale del fuorigioco. Dietro al paravento del fuorigioco, van Basten aveva proposto anche l’introduzione del tempo effettivo: «Gli spettatori vogliono azione».

La FIFA in effetti non è stata a guardare e ha organizzato di recente un torneo ad hoc tra giocatori Under 19 e Under 23 chiamato, tanto per rendere le idee chiare a tutti, “Future of Football Cup”. Nel corso del torneo sono state sperimentate cinque nuove regole: la sostituzione dei falli laterali con un calcio di punizione; la possibilità per il giocatore che batte una punizione di partire palla al piede senza un tocco di un compagno; sostituzioni illimitate, come nel basket o nella pallavolo; power-play di cinque minuti a ogni ammonizione, come nell’hockey su ghiaccio; dulcis in fundo, due tempi da trenta minuti di gioco effettivo.

In Italia del tempo effettivo si era parlato in relazione agli effetti dell’introduzione della VAR. Nelle occasioni in cui l’arbitro ferma il gioco per ricorrere alla verifica dal campo, il gioco si ferma ma il cronometro continua a scorrere. Marcello Nicchi, ex presidente dell’Associazione Italiana Arbitri, ha detto che in realtà il tempo effettivo già esiste ed è nel potere discrezionale degli arbitri di concedere o meno del tempo di recupero. E in effetti dall’introduzione del VAR abbiamo imparato a convivere con tempi di recupero così allungati da prendere la forma di frazioni supplementari.

Il CIES è un ente di ricerca indipendente che ogni mese fornisce un report statistico su differenti aspetti del calcio. Nello scorso mese di aprile il report del CIES si è concentrato sul tempo effettivo. I loro dati dicono che in Champions League la palla è in gioco per il 64,7% del tempo totale. In Serie A la percentuale scende al 63,2%. Significa che, considerando un tempo medio di gioco di 96 minuti, in Champions League si giocano in media poco più di 62 minuti, mentre in Serie A il tempo effettivo medio è di 60 minuti e mezzo. Sembrerebbe che, da un lato, Pioli abbia ragione a lamentarsi del tempo effettivo dell’ultimo Juventus-Milan, perché anche rispetto alle medie del nostro campionato ha fatto segnare un tempo effettivo oggettivamente scarso. Dall’altro lato, però, il richiamo di Pioli a un lavoro del movimento calcistico italiano per innalzare il tempo effettivo sembrerebbe non trovare conforto nei dati del CIES. A ben vedere, tra i campionati nazionali solo la Bundesliga fa meglio, piazzandosi a metà strada tra la Champions League e la Serie A per il tempo effettivo di gioco. E allora?

Ci sono due modi di perdere tempo: calciando la palla fuori o commettendo un fallo. In Italia si spende pochissimo tempo con la palla fuori dal campo, anche meno rispetto a quello che succede nelle caotiche notti di Champions League. Il CIES offre una chiave di lettura che è banale solo in apparenza: esiste una relazione tra il tempo perso con la palla fuori dal campo e la lunghezza dei passaggi giocati. Chi gioca di più sul corto sbaglia meno e la probabilità che il pallone vada fuori è più bassa.

Sembra quasi che nel discorso di Pioli causa ed effetto siano invertiti. In Serie A si gioca un possesso palla pressoché difensivo. Lo scorso anno una squadra italiana del nostro campionato ha speso in media il 54% del proprio tempo a passarsi la palla nella propria metà campo. In Champions League questa percentuale è invertita: le squadre giocano il 53% dei loro passaggi nella metà campo avversaria. Quindi non è il minor tempo di gioco a incidere negativamente sull’intensità della gara. È la scarsa intensità, intesa come volontà proattiva di crearsi delle occasioni per far male all’avversario, a dilatare i tempi morti.

Pioli ha anche detto che da noi si fischia troppo e ha ragione. In Italia in media vengono fischiati 28 falli a partita. In Champions League i falli fischiati sono 25, in Premier League 22. Se si considera che per ogni fallo fischiato si perdono in media 32 secondi (sempre per i dati CIES), ecco che in Serie A si perdono la bellezza di 15 minuti solo per battere una punizione.

Il richiamo di Pioli, pur mancando il bersaglio, resta valido. Ma più che rivolgersi agli arbitri per chiedere un cambio di atteggiamento (meno fischi) o  fare ipotesi di cambi di regolamento per estendere il tempo effettivo, più che invitare i calciatori a stare meno tempo a terra, a discutere meno e giocare di più, il suo appello coinvolge la categoria degli allenatori più di ogni altra.

Avere più intensità per giocare di più, mettersi al pari con gli avversari europei, significa modificare l’idea di come si possono vincere le partite. Su queste pagine lo abbiamo scritto più volte: se in Italia si parla di tattica, il più delle volte si allude a una tattica difensiva, cioè al modo di rispettare il buon vecchio comandamento “Primo: non prenderle”. Da noi si parla di intensità, intendendo un caos asfissiante nel quale è impossibile organizzare una strategia, al quale bisogna solo sopravvivere, ma l’ultimo Liverpool-Milan di Champions League ha detto tutt’altro.

È appena trascorsa l’estate che forse ha visto più cambi in panchina tra tutte, le scelte dei presidenti e dei direttori sportivi sono ricadute su allenatori esperti, alfieri della “vecchia scuola” italiana. Gli allenatori più proattivi messi in mostra dalla Serie A negli ultimi anni – De Zerbi, Juric, Italiano – non sono stati presi in considerazione da nessuna delle squadre con ambizioni di scudetto.

È grazie al lavoro di questi tre allenatori, e dei tanti come loro che ancora non si sono messi in evidenza nella massima serie, se abbiamo scoperto che la “vecchia scuola” nella quale si sono formati non è poi tanto vecchia. La FIGC ha un interesse naturale, per il bene dei vivai delle proprie squadre nazionali, ad avere un controllo diretto sulla formazione dei tecnici, e molto sta facendo per aggiornare i propri corsi, ma si può fare anche più di così.

Possiamo immaginare che un allenatore possa formarsi fuori dai circuiti canonici? Senza aver avuto una carriera da calciatore da riscattare come fosse un credito universitario, senza aver per forza accesso ai corsi federali, come accade in Germania?

La diversità è ricchezza, vale nel calcio come per tutte le altre cose. Ci sono federazioni, come quella belga o quella inglese, che hanno lavorato insieme con i club, cercando di far collimare i differenti interessi. Hanno confrontato le diverse metodologie, unito conoscenze maturate in ambiti apparentemente lontani, ottenendo buoni risultati. In Italia siamo pronti ad abdicare a una porzione del potere personale, a tenderci la mano per il bene comune? Siamo pronti, anche come tifosi, ad accettare scelte più avventurose da parte delle società, col rischio che possano rivelarsi fallimentari?

Il cambiamento culturale che auspica Pioli è alla base di una vera evoluzione, ma deve essere più profondo di quello forse immaginato da Pioli stesso.

fonte ultimouomo.com

By marcodalmen
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