La Dea nei Balcani
Premessa: tutto quanto descritto nel pezzo e' accaduto veramente, pochi giorni fa
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Ho lasciato Banja Luka la mattina presto.
Faceva quasi freddo. Il sole era troppo timido a quell’ora per rassicurare con il suo tepore.
Banja Luka è la tranquilla capitale della Republika Srpska (Repubblica Serba di Bosnia i Erzegovina), situata nel nord della Bosnia.
Una cinquantina di chilometri su una strada senza quasi nessuno fino a Gradiska. Lì incontro Mladen, con il quale mi intrattengo un’oretta.
Gradiska è una cittadina di confine. Al di là del fiume Sava, che la lambisce, c’è la Croazia. Le divide un ponte di ferro, ricostruito quasi uguale a quello distrutto durante la guerra.
Al di qua del ponte c’è la dogana bosniaca, al di là quella croata, che regola il flusso in entrata in Europa.
La colonna di auto ferme prima del ponte non è lunghissima, ma l’attesa mi mette in tensione. Nel baule ho qualche bottiglia di Šljivovica di troppo, assieme a qualche bottiglia di bianco tipico di Novi Sad, frutto dei regali degli amici che ho incontrato durante le mie visite in terra balcanica.
Le ho ben camuffate fra le valigie e i documenti di lavoro, ma se decidono di perquisire proprio me, dovrò usare tutta la diplomazia che conosco e, soprattutto, me ne dovrò liberare.
Arriva il mio turno alla dogana.
Giacca e cravatta sono sempre ottimi strumenti per dimostrare senza dirlo di essere da quelle parti per lavoro.
Nella guardiola c’è un ragazzotto robusto. Faccia paffuta, dai tratti balcanici di etnia serba. Capelli chiari e corti. Avrà circa trent’anni.
Gli allungo i passaporti. Assieme a me c’è una collega.
Guarda il suo, poi si abbassa e cerca di guardarla in volto attraverso il mio finestrino aperto.
Apre il mio passaporto. Guarda la foto e poi guarda me, mentre io mi levo gli occhiali da sole. I doganieri non amano la gente che si presenta al controllo con occhiali scuri, che ingannano i lineamenti del volto.
“Bergamo!”
Esclama di colpo con un sorriso splendente, del quale non ritenevo fosse capace.
“Yes, I’m from Bergamo.”
Ricerca con frenesia, frugando nelle tasche della giacca, il cellulare. Una volta trovato, il sorriso diventa, se possibile, ancora più ampio.
Dà un colpo con il dito ed appare lo screenshot.
Il logo dell’Atalanta!!!
Prendo il mio cellulare e gli faccio vedere che anche sul mio c’è la medesima immagine.
Sobbalza. Si leva dalla sedia, facendola rotolare indietro. Esce dalla guardiola e si avventa verso il mio finestrino.
Nel retrovisore vedo le facce stranite degli altri doganieri e degli occupanti dell’auto dietro la mia.
Entra con la testa nel mio abitacolo e scorre le fotografie salvate nel suo telefono.
Immagini dei nostri beniamini in azione.
Una scivolata di Demiral. Zapata che fa i muscoli. Pašalić che esulta. Koopmainers che accarezza il pallone. E via via tante altre.
Dietro al mio sedile ci sono due bottiglie nascoste sotto la ventiquattrore.
Gli altri doganieri si avvicinano e il ragazzotto si ricompone. Rientra nella guardiola e ci restituisce i passaporti.
“Hvala (grazie)”
Gli dico strizzandogli l’occhio.
La mia collega, sentendosi tagliata fuori dal discorso, azzarda un “forza juventus”. Lei purtroppo è stata istruita male dal marito.
Il doganiere scuote la testa.
“Juventus, blah!”
Dice schifato, accompagnando la frase con una smorfia e un eloquente gesto della mano.
“Forza Atalanta!”
Mi dice in maniera goffa, salutandomi.
Attraverso il ponte e arrivo alla dogana croata.
Sono ancora eccitato per la stranissima avventura con il poliziotto bosniaco, al quale non mi sono nemmeno preoccupato di chiedere il nome, che non mi viene nemmeno da pensare alle bottiglie di alcolici che ho in auto.
“Cigarettes? Alcohol?”
“Nothing.”
“Ok.”
E mi fa segno di passare.
“Forza Atalanta.”
Sussurro, mentre alzo il finestrino e riprendo il mio viaggio verso Zagabria.
Rodrigo Dìaz
(qui sotto la foto del ponte al confine dov'e' accaduto l'incontro)
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Ho lasciato Banja Luka la mattina presto.
Faceva quasi freddo. Il sole era troppo timido a quell’ora per rassicurare con il suo tepore.
Banja Luka è la tranquilla capitale della Republika Srpska (Repubblica Serba di Bosnia i Erzegovina), situata nel nord della Bosnia.
Una cinquantina di chilometri su una strada senza quasi nessuno fino a Gradiska. Lì incontro Mladen, con il quale mi intrattengo un’oretta.
Gradiska è una cittadina di confine. Al di là del fiume Sava, che la lambisce, c’è la Croazia. Le divide un ponte di ferro, ricostruito quasi uguale a quello distrutto durante la guerra.
Al di qua del ponte c’è la dogana bosniaca, al di là quella croata, che regola il flusso in entrata in Europa.
La colonna di auto ferme prima del ponte non è lunghissima, ma l’attesa mi mette in tensione. Nel baule ho qualche bottiglia di Šljivovica di troppo, assieme a qualche bottiglia di bianco tipico di Novi Sad, frutto dei regali degli amici che ho incontrato durante le mie visite in terra balcanica.
Le ho ben camuffate fra le valigie e i documenti di lavoro, ma se decidono di perquisire proprio me, dovrò usare tutta la diplomazia che conosco e, soprattutto, me ne dovrò liberare.
Arriva il mio turno alla dogana.
Giacca e cravatta sono sempre ottimi strumenti per dimostrare senza dirlo di essere da quelle parti per lavoro.
Nella guardiola c’è un ragazzotto robusto. Faccia paffuta, dai tratti balcanici di etnia serba. Capelli chiari e corti. Avrà circa trent’anni.
Gli allungo i passaporti. Assieme a me c’è una collega.
Guarda il suo, poi si abbassa e cerca di guardarla in volto attraverso il mio finestrino aperto.
Apre il mio passaporto. Guarda la foto e poi guarda me, mentre io mi levo gli occhiali da sole. I doganieri non amano la gente che si presenta al controllo con occhiali scuri, che ingannano i lineamenti del volto.
“Bergamo!”
Esclama di colpo con un sorriso splendente, del quale non ritenevo fosse capace.
“Yes, I’m from Bergamo.”
Ricerca con frenesia, frugando nelle tasche della giacca, il cellulare. Una volta trovato, il sorriso diventa, se possibile, ancora più ampio.
Dà un colpo con il dito ed appare lo screenshot.
Il logo dell’Atalanta!!!
Prendo il mio cellulare e gli faccio vedere che anche sul mio c’è la medesima immagine.
Sobbalza. Si leva dalla sedia, facendola rotolare indietro. Esce dalla guardiola e si avventa verso il mio finestrino.
Nel retrovisore vedo le facce stranite degli altri doganieri e degli occupanti dell’auto dietro la mia.
Entra con la testa nel mio abitacolo e scorre le fotografie salvate nel suo telefono.
Immagini dei nostri beniamini in azione.
Una scivolata di Demiral. Zapata che fa i muscoli. Pašalić che esulta. Koopmainers che accarezza il pallone. E via via tante altre.
Dietro al mio sedile ci sono due bottiglie nascoste sotto la ventiquattrore.
Gli altri doganieri si avvicinano e il ragazzotto si ricompone. Rientra nella guardiola e ci restituisce i passaporti.
“Hvala (grazie)”
Gli dico strizzandogli l’occhio.
La mia collega, sentendosi tagliata fuori dal discorso, azzarda un “forza juventus”. Lei purtroppo è stata istruita male dal marito.
Il doganiere scuote la testa.
“Juventus, blah!”
Dice schifato, accompagnando la frase con una smorfia e un eloquente gesto della mano.
“Forza Atalanta!”
Mi dice in maniera goffa, salutandomi.
Attraverso il ponte e arrivo alla dogana croata.
Sono ancora eccitato per la stranissima avventura con il poliziotto bosniaco, al quale non mi sono nemmeno preoccupato di chiedere il nome, che non mi viene nemmeno da pensare alle bottiglie di alcolici che ho in auto.
“Cigarettes? Alcohol?”
“Nothing.”
“Ok.”
E mi fa segno di passare.
“Forza Atalanta.”
Sussurro, mentre alzo il finestrino e riprendo il mio viaggio verso Zagabria.
Rodrigo Dìaz
(qui sotto la foto del ponte al confine dov'e' accaduto l'incontro)
By staff