La ragazza dai pantaloni a zampa di elefante
Quella appena trascorsa era stata una notte di mugghiante bufera, aspra quanto solo i fortunali che all’incombere dell’inverno spazzano la Sardegna riescono ad esserlo. Carlo l’aveva spesa senza quasi chiudere occhio, con l’apprensione che il telefono si mettesse a squillare per recargli l’annuncio di qualche sventura. Giusto qualche anno prima, nelle procellose tenebre del 18 novembre 2013, una volante della polizia di scorta ad un’ambulanza era stata inghiottita da una voragine apertasi d’improvviso lungo il ponte di Oloè, tra Oliena e Dorgali, ed un giovane agente ci aveva rimesso la vita. Ma fortunatamente il cellulare era rimasto taciturno sino all’alba, quando il sottotenente Loi, placatosi il nubifragio, aveva rassicurato il maggiore informandolo che non erano riportati danni significativi a persone o cose.
Con l’animo sollevato dalle nuove appena ricevute, di buona mattina Carlo raggiunse il comando provinciale di Nuoro, pronto ad affrontare una giornata che si preannunciava comunque impegnativa. E le scocciature non si fecero attendere a lungo: dalla stazione della Forestale di Orgosolo arrivò presto una chiamata che gli impose di mettersi immediatamente in viaggio verso il Supramonte. Una pattuglia dei berretti grigi, in sopralluogo lungo il Rio Flumineddu alla ricerca di eventuali smottamenti provocati dalla tempesta, aveva localizzato l’ingresso di un antro sino al giorno prima celato da una folta macchia che le violente raffiche di vento della nottata avevano sradicato e spazzato via. Entrati nella caverna, i militari avevano scoperto che sul suolo giacevano le spoglie, ormai ridotte a scheletro, di tre o quattro esseri umani.
Prima di far rotta verso l’imbocco orientale della gola di Gorropu, il fuoristrada con a bordo il maggiore si era fermato in città per raccogliere presso la sede dell’ASL il medico legale incaricato degli accertamenti forensi. Oltrepassata Urzulei, il drappello dovette abbandonare l’automezzo per proseguire a piedi risalendo il canalone che, tra dirupi ed asperità, conduceva alla grotta. A dispetto della gravità della missione, Carlo non riusciva a reprimere l’impulso a sentirsi come uno scolaretto in gita. Non solo nell’ultima giornata di campionato l’Atalanta s’era imposta d’autorità sul difficile campo del Sassuolo, ma la compagine di Bergamo aveva inaspettatamente continuato a scalare posizioni in classifica, giungendo ormai in prossimità dei vertici. E l’ufficiale volteggiava a due palmi da terra.
Dopo un paio d’ore d’accidentato cammino, la pattuglia raggiunse la piccola radura dove la attendeva un plotoncino del Corpo Forestale. Su una delle pareti di arenaria che cingevano lo spiazzo si apriva l’angusto orifizio della cavità all’interno della quale erano stati rinvenuti i resti umani. Il maggiore diede disposizione ai subalterni di isolare la scena in attesa dell’arrivo da Cagliari del Reparto Investigazioni Scientifiche, ed indossò caschetto protettivo, guanti di lattice e soprascarpe di tela per entrare nell’antro in compagnia del medico legale.
All’interno della grotta l’oscurità era pressoché impenetrabile. Ad un tratto il fascio di luce della torcia impugnata dall’ufficiale fu riverberato dal bagliore opalescente di un indistinto cumulo biancastro ammassato in un angolo. Si trattava del mucchio d’ossa scoperte dai forestali, che dovevano essere quanto rimaneva di più cadaveri accatastati alla rinfusa. Carlo scattò numerose fotografie prima di fare ritorno, non senza un certo sollievo, alla luce del sole.
“E’ presto per trarre conclusioni definitive” - disse il dottor Mereu dopo il sommario sopralluogo - “ma, a giudicare dalle loro condizioni, i resti dovrebbero risalire a non meno di qualche decennio fa.”
Raccolte le prime impressioni del medico legale, il maggiore lo congedò facendolo scortare a valle dal resto della squadra giunta da Nuoro. Dopo il passaggio delle consegne agli uomini del RIS, lui avrebbe invece proseguito l’ascesa con i colleghi della Forestale in direzione di Orgosolo, giacché intendeva recarsi alla locale stazione dell’Arma per iniziare ad imbastire le indagini.
“Potrebbe trattarsi di un vecchio cimitero dell’Anonima Sequestri. O dell’ossario di una delle innumerevoli faide del banditismo.” Con il volto segnato da tutte le rughe che i suoi sessantadue anni avrebbero potuto tracciare, il maresciallo Piras, preposto della caserma di Orgosolo, era un profondo conoscitore della storia del crimine organizzato in Barbagia.
Reduce da un supplemento di dura arrampicata lungo la gola del Gorropu, il maggiore Ubbiali era giunto nel capoluogo del Sopramonte solo nel tardo pomeriggio, ed il maresciallo gli aveva fatto trovare già bell’e pronto un piccolo cumulo di fascicoli estratti dal ponderoso archivio della stazione. In cima alla pila era poggiato un incartamento sulla cui copertina campeggiava, vergato a lettere capitali con tratto un po’ vetusto, il nome di Giovanni Battista Liandru.
Carlo iniziò a sfogliare la cartella, e d’improvviso si ritrovò tra le mani una delle istantanee più surreali nelle quali si fosse mai imbattuto. Al centro della scena immortalata nello scatto in bianco e nero spiccava la severa presenza di un ossuto anziano, con indosso un abito scuro rusticamente formale. Al suo fianco poggiava una giovanissima donna dal piglio parimenti aggrondato e dalla fluente chioma sciolta, della quale balzava all’occhio soprattutto l’iperbolico taglio a zampa di elefante dei pantaloni. A margine della stravagante coppia si sgranavano alcuni non meno bizzarri figuranti, tra cui una vecchia in costume d’altri tempi accovacciata accanto ad una povera valigia.
“E questa fotografia che rappresenta?” - sbottò stupito il maggiore Ubbiali.
“Per spiegarglielo dovrei partire da molto lontano” - rispose il maresciallo Piras, a cui la domanda parve non giungere del tutto inattesa. Carlo assentì con un impercettibile cenno del capo.
“Forse il Maggiore già sa che Giovanni Battista Liandru è una delle figure leggendarie - per quanto lo possa essere un farabutto - del banditismo sardo. In realtà si trattava di uno dei tanti giganti dai piedi d’argilla di cui è ricca la storia della delinquenza organizzata. Nessuno infatti saprebbe dire con precisione cosa abbia fatto, almeno agli inizi della sua carriera criminale, per essersi meritato tanta notorietà. Era semplicemente un ladruncolo di bestiame, per giunta malato di tubercolosi, occasionalmente affiancato da latitanti ben più giovani, più in forze e più spietati di lui. Ma, per singolare combinazione, si vide presto appioppata la fama di implacabile capobanda, tanto da essere soprannominato “il re del Supramonte”.
Dopo che si guadagnò questa reputazione, a Liandru vennero regolarmente attribuite le più feroci tra le azioni criminali che il banditismo sardo perpetrava a ripetizione. Come la rapina del 1950 a Villanova Strisaili, nella quale furono uccisi quattro nostri commilitoni. Non era affatto chiaro se il delinquente vi avesse preso parte o se vi avesse comunque giocato alcun ruolo, ma al processo che fu successivamente celebrato i giudici decisero ad ogni modo di condannarlo all’ergastolo.
Poche settimane dopo la carneficina, stanco, malato e ben più vecchio nel fisico di quanto i suoi quarantasette anni avrebbero comportato, Liandru fu catturato mentre era appisolato in un ovile del Supramonte. Condotto in manette verso Orgosolo, era talmente malconcio da dover a più riprese chiedere ai carabinieri della scorta di interrompere la marcia per consentirgli di riprendere fiato.
Il bandito fu quindi rinchiuso nelle vecchie carceri di Nuoro, dove dopo breve fu raggiunto dalla notizia dell’assassinio della moglie Maddalena. Una mattina la povera donna, che non aveva neppure i soldi per permettersi il biglietto della corriera, era partita a piedi da Orgosolo alla volta del penitenziario dove era detenuto il marito. Ma non riuscì a compiere neppure il primo dei diciotto chilometri che separano il paese da Nuoro, dato che qualche vigliacco la abbatté appena fuori dal centro abitato con una revolverata alla nuca. L’omicidio - non occorre nemmeno che lo soggiunga -rimase del tutto impunito.
Liandru restò in carcere per quasi un quarto di secolo, sino a quando il presidente Leone decise di concedergli la grazia. Abbandonato da tutti ed in condizioni di salute sempre più precarie, il vecchio delinquente tornò ad Orgosolo per spendervi gli ultimi anni della sua esistenza. E qui fu raggiunto dalla ragazza ritratta assieme a lui nella foto. Era una studentessa italo-francese, ammaliata forse dal fascino che l’immagine del bandito, autentica o posticcia che fosse, doveva ancora sprigionare. Folle di passione, Liandru non perdeva occasione per esibire la sua conquista per le vie del paese, sino a che la giovane si disamorò e fuggì sul continente. L’anziano stentò ad incassare l’ennesimo colpo, e poco dopo la fine della storia d’amore rese in solitudine l’anima a Dio.”
Il maggiore Ubbiali bofonchiò qualcosa nel goffo tentativo di dissimulare la curiosità che la stravagante fotografia ed il lungo racconto del maresciallo gli avevano instillato, fingendo quindi di interessarsi all’incartamento successivo.
Steso sul letto nel suo piccolo appartamento di Nuoro, Carlo squadrava meditabondo il soffitto. La giornata appena trascorsa era stata fin troppo prodiga di accadimenti, ma nella testa dell’ufficiale seguitava a frullare solo la vicenda del vecchio bandito e della sua giovane amante improvvisamente apparsa dal continente, ed altrettanto repentinamente svanita. Chissà come, gli venne da accostare la bizzarra storia d’amore, impossibile quanto ineluttabilmente fatua, all’apogeo di gloria sportiva che la sua squadra del cuore stava attingendo in quelle settimane. Avesse potuto esibire i vessilli dell’Atalanta per le vie del centro, così come Liandru soleva fare con la sua compagna poco più che adolescente, il maggiore vi avrebbe provveduto senza esitazioni.
Il carabiniere era parimenti consapevole che l’inattesa beatitudine calcistica piovuta dal cielo - del tutto frivola ma, forse proprio per quello, di impareggiabile intensità - era con certezza destinata a provarsi caduca. Del resto, anche l’esaltazione più travolgente poggia invariabilmente su un fondo di angoscia.
Di li a qualche giorno, nella vetusta arena ai piedi dei colli di Bergamo, era attesa la Roma per un imprevedibile scontro di vertice. E già in quell’occasione l’idillio sarebbe potuto giungere ad una brusca capitolazione. Ma quanto era grato lasciarsi blandire dal sogno che il risveglio del lunedì - fantasticava Carlo - sarebbe stato ancora una volta confortato dalla misteriosa presenza della ragazza dai pantaloni a zampa di elefante…
BY SENZAMALIZIA