Le ragioni di una sconfitta
Per la terza volta in cinque anni l’Atalanta arriva a gonfie vele ad un passo dalla meta ma naufraga mestamente sull’ultimo scoglio. La Coppa Italia, da molti (e non da ultimo anche da mister Gasperini) indicata come il più accessibile dei titoli a portata della nostra Dea, e alla quale siamo particolarmente affezionati trattandosi dell’unico trofeo della nostra storia, pare ora ammantata da una sorta di maledizione che ce la rende irraggiungibile. Una sorta di trasposizione nella realtà del celebre paradosso di Zenone su Achille e la tartaruga.
Contrariamente alle finali perse contro Napoli e Fiorentina, ormai smarrite nel remoto passato, conquistate quasi casualmente e dalle quali quasi nessuno si aspettava una vittoria, alla finale del 2019 contro la Lazio ed alle successive due con la Juventus, l’Atalanta arrivava in buona forma psicofisica, reduce da prestazioni brillanti e risultati favorevoli, tanto da presentarsi (a detta di molti, almeno quest’anno) nelle vesti di favorita.
Come tutti sanno, una volta in campo le raggianti premesse hanno lasciato spazio a partite molto meno soddisfacenti, non solo a livello di risultato ma anche di approccio e prestazione.
Ripensando all’andamento di queste partite, torna alla mente una nota espressione di Agatha Christie che dice: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova».
E i tre indizi ci dicono che la nostra Dea, capace solo pochi giorni fa di inanellare due partite esaltanti come quelle contro Marsiglia e Roma, nei momenti cruciali smarrisce molte delle proprie certezze e si incupisce con prestazioni non all’altezza delle aspettative.
Quali sono i motivi di questa sorta di bipolarismo della squadra? C’è un “fil rouge” che unisce e in qualche modo spiega il perché di questo alternarsi di montagne russe, così difficile da accettare?
Noi, nel nostro piccolo e senza presunzione, abbiamo provato a fare qualche ipotesi:
- nel calcio ci sono anche gli avversari, che possono metterti in gravi difficoltà se riescono a inibire le tue fonti di gioco. Se non si riesce efficacemente a cambiare registro alla propria prestazione, il rischio è quello di continuare a girare a vuoto e sbattere la testa contro un muro;
- la poca confidenza dei nostri giocatori con i grandi palcoscenici, che genera il famoso “miedo escenico” (espressione coniata da Gabriel Garcia Marquez per definire la propria paura di parlare in pubblico, e traslata nello sport da Jorge Valdano per descrivere il blocco emozionale che coglieva le squadre ospiti dei Galacticos del Real Madrid, negli anni ‘80, sul campo del Bernabeu). L’impressione che i ragazzi di Gasperini siano ogni volta scesi in campo con le gambe molli e timorosi di sbagliare, è una costante ricorrente;
- il non aver ancora raggiunto un livello di maturità che consenta di affrontare le sfide cruciali con la necessaria serenità e la consapevolezza della propria forza. Scendere in campo con la testa pesante, schiacciati da una pressione a cui non si è abituati, ti porta a rendere molto meno di quello che potresti fare a mente sgombra;
- una condizione fisica difficile da mantenere al massimo per lunghi tempi. L’Atalanta sta giocando ogni tre giorni da febbraio, essere in corsa per tanti obbiettivi è bello ma dispendioso e si rischia di arrivare a primavera inoltrata con i giocatori contati o spremuti;
- una rosa non troppo profonda che per infortuni, squalifiche o defezioni di altra natura obbliga il mister ad adattamenti forzati con giocatori fuori ruolo. Non c’è controprova che con Scamacca e Kolasinac si sarebbe vinto, ma intanto era meglio averli, senza contare uno Scalvini a mezzo servizio e le alternative che avrebbero potuto offrire Holm e Palomino;
- la certezza, per chi scende in campo, di vivere in un ambiente che, storicamente, si “accontenta” del percorso più che del risultato. Qualunque sia l’esito della gara, l’Atalanta non verrà mai contestata per aver perso una finale, ma sempre e solo sostenuta e ringraziata.
Al di là del momentaneo scoramento per essersi nuovamente visti sfuggire un trofeo tra le dita, la stagione che stiamo vivendo è comunque storica ed esaltante: non può e non deve essere una sconfitta di misura contro la società più titolata d’Italia a toglierci l’entusiasmo per ciò che è, e che a questi livelli non abbiamo mai provato.
Ora mettiamoci in fretta la delusione alle spalle: alle porte c’è la Storia.
L’augurio al mister ed ai ragazzi è quello di individuare il prima possibile l’interruttore giusto da accendere nelle partite da “dentro o fuori”. La finale di Dublino, che solo dieci anni fa era un miraggio inimmaginabile per la nostra realtà, può invece rappresentare un epocale punto di svolta per il mondo Atalanta. Se lo merita la Società, se lo meritano il mister ed i giocatori, ce lo meritiamo noi che questi colori li portiamo orgogliosamente da tutta la vita.
Gandalf
By staff