Lega, un fallimento annunciato
Così è fallito il progetto della Serie A: chiacchiere senza vittorie, pochi soldi e stadi vuoti (repubblica.it)
La Lega di Serie A che si consuma in lotte intestine alla ricerca di un candidato alla presidenza capace di succedere a Maurizio Beretta finge di non cogliere il fallimento della Confindustria del pallone. Peraltro la situazione di Beretta è quanto meno complicata: alla guida della Serie A dal 2009, nel 2011 è diventato anche responsabile della comunicazione di Unicredit, la banca più esposta verso il calcio italiano. Forse anche per questo i presidenti di Serie A continuano a chiedergli di restare sulla poltrona della loro associazione, in una sorta di eterna captatio benevolentiae.
Quello che però i presidenti di Serie A preferiscono non dire è che i primi 8 anni di vita della Lega sono stati a dir poco fallimentari. Nata di fatto per gestire la vendita collettiva dei diritti tv dopo la legge Melandri, la Lega di Serie A non è riuscita a far emergere il valore del calcio italiano e – peggio – ha contribuito ad allargare il divario economico tra piccole e grandi squadre. Con l’aggravante che dal 2009 in poi le grandi squadre non hanno vinto nulla (ad eccezione della Champions League interista del 2010) a livello internazionale.
Insomma quello che una volta era il campionato più bello del mondo non esiste più. I vari Ronaldo, Ibrahimovic, Roberto Baggio e Zidane, Platini e Maradona sono scomparsi e i loro eredi preferiscono migrare verso altri lidi a caccia di ingaggi faraonici. D’altra l’incapacità della Serie di A di monetizzare il proprio prodotto è evidente: da un lato c’è la mancanza di un vero manager capace di valorizzare il proprio prodotto; dall’altro c’è la volontà della grandi squadre a mantenere lo status quo per non mettere a rischio il loro predominio. E così il giocattolo si è rotto: la Serie A ha prima ceduto il passo alla Premier League, poi si è dovuta inchinare alla Liga spagnola e alla Bundesliga tedesca. “Sono campionati più interessanti” dicono gli addetti ai lavori. Ma è una sentenza che fa male come una pugnalata e oggi le stesse tv che investono miliardi per i diritti dei principali campionati europei, quando è la volta dell’Italia cercano di spendere il meno possibile. Un paradosso per un campionato che deve il 61% dei propri ricavi proprio alla vendita dei diritti televisivi: in nessun altro paese europeo la dipendenza economica è così sbilanciata. In Gran Bretagna dove è stato chiuso un contratto di vendita monstre da 2,3 miliardi di euro l’anno le tv pesano appena il 53%, mentre gli altri campionati restano sotto la soglia del 50%.
Peggio: le cinque grandi leghe europee hanno visto il proprio valore crescere esponenzialmente con picchi del +104% per il rinnovo dell’ultimo contratto in Spagna (per la prima volta i diritti tv sono stati venduti collettivamente), mentre l’Italia si è dovuta accontentare di un +19% (l’incremento più basso). La bistrattata Ligue 1 francese ha incassato il 26% in più, la Premier League il 71% e la Bundesliga tedesca l’83%. In termini assoluti fanno 3,8 miliardi l’anno per il campionato inglese; 1,6 miliardi per quello spagnolo; 1,4 per quello tedesco; 1,14 per quello italiano e 807 milioni per quello francese. Insomma per la Lega che più di ogni altra dipende dalle televisioni è paradossale non essere in grado di valorizzare al massimo l’unico asset di prestigio. Anche perché a questo si aggiunge l’assoluta incapacità delle società di sviluppare il settore marketing e la lentezza nel costruire gli stadi di proprietà.
I motivi della debacle sono molteplici, ma – numeri alla mano – secondo gli esperti la causa principale è nel ridotto numero di partite trasmesse in esclusiva. All’estero ogni match è trasmesso da un solo operatore che ha acquistato il diritto insieme a uno dei pacchetti messi all’asta dalle diverse leghe. E non tutte le partite sono in diretta televisiva. In Italia, invece, ogni match è in televisione, ma solo il 34% delle partite è in esclusiva: “Un fattore che dal lato dell’acquirente riduce gli incentivi a offrire cifre più consistenti” osserva Augusto Preta, direttore di It Media Consulting che poi aggiunge: “Non va dimenticato che in Italia le partite vendute in esclusiva hanno un’attrattiva vicina al 10%, sono quindi quelle con meno appeal e senza le grandi squadre”. Contestualmente, le presenze allo stadio sono calate di oltre il 10% nell’ultimo decennio con impianti sempre più spesso vuoti.
nsomma se all’estero l’obiettivo è quello di finanziare l’industria del pallone nella speranza di migliorare lo spettacolo e aumentare la competitività a livello internazionale, in casa nostra non si capisce quale sia il vero interesse della Serie A (se non quello di tutelare le televisioni). Anche perché oltre a non massimizzare gli introiti non c’è neppure stato un aumento della competitività nazionale: lo scudetto e la qualificazione per le coppe europee sono una questione tra la Juventus e le altre – poche grandi; la lotta per non retrocedere è riservata alla neopromosse e qualche strana sorpresa, mentre ci sono una decina di squadre che galleggiano nell’anonimato. Un problema che nei suoi otto anni di esistenza la Serie A non ha mai voluto affrontare. Basti pensare alle modalità con cui vengono ripartiti gli introiti delle televisioni: la stagione in corso è quasi insignificante e questo spiega come mai molte squadre smettano di fatto di giocare con l’arrivo della primavera. In fondo arrivare decimo o quindicesimo poco cambia e senza stimoli l’agonismo e lo spettacolo ne risentono.
Peggio, in Italia le prime 5 squadre si dividono il 44% della torta con la prima classificata che incassa 4,7 volte quanto l’ultima in classifica. Tradotto la Juventus prende 81 milioni in più chi retrocede. In Gran Bretagna differenza è quasi azzerata con la prima in classifica che incassa 1,5 volte l’ultima: appena 48 milioni di differenza. Una ripartizione che ha permesso al Leicester di incassare 100 milioni di sterline al termine della stagione 2014-15 e di vincere così lo scudetto l’anno dopo. In Italia è semplicemente impossibile: il divario è destinato ad aumentare anno dopo anno, nel silenzio della Serie A incapace di cambiare, ma impegnata a discutere di governance mentre il calcio italiano muore.