23/05/2020 | 04.44
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Lettera al Tio

Querido Tio,
Ti scrivo queste righe, affinché i cinque chilometri che ci dividono siano un po’ meno lontani. Perché mi manchi. Perché mi mancano le tue risposte alle domande che la mia coscienza mi ripropone in queste notti.
Ti scrivo perché, almeno tu, mi risponda.
Della solitudine ne ho fatto una ragione di vita. Come te, d’altra parte. Poiché la compagnia di sé stessi è la più onesta compagnia che si possa pretendere.
L’assenza di risposte, invece, non è solitudine. E’ vuoto. E questo fa male.
Sono fredde le notti a Pamplona.
Anche a maggio. Anche stanotte.
E sono ancora più fredde le notti insonni. Quelle dove si ripropongono i rigurgiti dei ricordi. Dove assapori quello che avresti potuto avere ma non hai avuto. Dove cerchi risposte che mai nessuno ti ha dato.
La pandemia mi ha strappato dalle mani il lavoro. Charo la sento sempre più raramente. Già la vedevo poco prima, figuriamoci ora, dove il nostro rapporto non figura in nessuno dei ciclostili che qualcuno ha previsto per affrontare questa strana pandemia.
Allora rimango in compagnia delle tue telefonate. Sempre più rare. E delle mie notti insonni. Sempre più frequenti.
Della mia penna, e delle quattro righe mai ricevute.
Sulla mia scrivania, c’è un registratore a cassette.
Te la ricordi la mia scrivania? Non è altro che il tavolo che tenevi accanto al muro e mi regalasti per fare spazio al divano per il cane Ernesto.
Quel registratore a cassette l’avevo preso per registrare le lezioni, fin troppo poche, dell’università. Quando ero andato, ventenne sbarazzino, a Madrid per studiare, prima di lasciarmi trasportare in giro per l’Europa, e non solo, dalla professione che non cambierei mai con nessun’altra. Forse perché è l’unica che so fare.
Questo piccolo registratore, con i nastri mignon, è rimasto nell’oblio di un cassetto qualsiasi per un paio di decenni. Fino a quando non mi fu data la possibilità di incontrare Yohan Benalouane, dentro le mura di Zingonia.
Su quei nastri, carini a vedersi, quasi come oggetti da collezione, ci sono impresse altre chiacchierate. Belle, ma sempre più rare. Sempre più difficili da realizzare. Sempre più lontane. Nel tempo e nelle possibilità.
Le sbobinavamo insieme. Ti ricordi?
Sul tavolone della tua cucina. E il cane Ernesto sotto la tua sedia. Prima ad ascoltare e poi a russare.
Sul quel tavolone eterno, dove una bottiglia di Ramòn Bilbao non era mai abbastanza, ascoltavamo le registrazioni.
Poi schiacciavo stop. Poi ritornavamo indietro. Poi di nuovo avanti. Poi ancora stop.
Il registratore in mezzo. Io e te piegati in avanti, per cogliere meglio la voce che i forellini nella plastica grigia ci restituiva.
Poi stop. Torna indietro. Riavvia. Stop. Un po’ più indietro e riavvia di nuovo.
E i tuoi sguardi, con le sopracciglia inarcuate e il tuo dito indice che benedivano i passaggi che meritavano di essere riportati integrali nel riassunto sulla carta.
E i pomeriggi se ne andavano.
Arrivava la sera e ti rileggevo quanto avevo scritto, mentre rugavi a dovere l’arroz della cena.
Tutto questo non c’è più, querido Tio.
E non per colpa della pandemia.
Non c’è più da molto prima.
Non c’è più perché il treno è troppo veloce, ormai. Troppo lussuoso, forse. Almeno per noi.
Le carrozze di seconda classe non ci sono più.
Troppo pesanti. Troppo d’impiccio.
Anche in tempi dove la pandemia ha fermato tutto, non c’è più posto. Nemmeno solo per una videointervista. Di pochi minuti. Solo una.
Non c’è più posto su quel treno per un girovago navarro, che di mestiere fa tutt’altro. Non c’è più posto per noi, querido Tio.
E mi sento un po’ come quel ritornello di Joaquin Sabina dove malinconicamente canta “porque en el amor yo soy un idiota”.
Non c’è più posto per noi, sul quel treno.
Senza nemmeno quattro righe di congedo. Nonostante tutto.
Risposte posticipate. Poi mute. Mai più date.
Senza nemmeno un “non c’è posto per voi, su questo treno. Ormai.”
Solo silenzio. Con la pretesa che diventi oblio.
Ma nelle notti navarre, una risposta non data non diventa oblio. Diventa un’assenza.
Sono fredde le notti a Pamplona.
Anche a maggio. Anche stanotte.
Senza nemmeno quattro righe.
Non c’è più posto per noi, su quel treno. Ormai troppo veloce. Troppo bello.
Troppo lontano.
A presto, Tio.
Torneremo a passeggiare nei boschi.

Rodrigo Dìaz.

By staff
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