Il Natale del Tio
In quest’epoca di tecnologia sfrenata, di social invadenti, di globalizzazione anche dei gusti e delle passioni, fatichiamo a comprendere dove stiamo scivolando.
Poi arriva Natale.
Il Natale mi ricorda quando, da ragazzini, andavamo a fare il bagno nell’Arga su a Esteribar. Dove il fiume scorre più veloce ed aggressivo.
Ci aggrappavamo ai tronchi di faggio che spuntavano dalle sponde o alle rocce degli argini, per non scivolare a valle e riguadagnare la riva.
Allora adesso ci aggrappiamo al Natale per ritrovare le tradizioni. Quei momenti dimenticati, che almeno un giorno all’anno facciamo rinascere.
Che siano piacevoli o meno, non importa. Quello che conta è che ci siano.
Come la tradizione di andare a trovare la “zia Maider”, ottantenne perpetua nel Monastero di San Miguel de Aralar.
Cugina di mia madre, non l’ho mai frequentata, perché rinchiusa fin da giovane a fare la perpetua nel Monastero. Ma ogni vigilia di Natale aspetta la mia visita. Con una bottiglia di vino incartata in una carta regalo vecchia di secoli. Io le porto una scatola di biscotti. Quelli della pasteleria Larramendi.
Da piccolo ci andavo con mia madre e mio padre. Venuti a mancare loro, ho proseguito la tradizione.
La visita dura non più di dieci minuti. Due parole. Le stesse da sempre. E un abbraccio.
Ne esco sollevato. Malinconicamente felice.
Non so se quella visita sia più attesa da lei o da me.
Anche el Tio rimane aggrappato al Natale. Con le unghie. Con i denti. Ma soprattutto con l’anima.
Rimane aggrappato alla Nochebuena. Ed ogni Nochebuena che passa è un solco nel tronco dei suoi ricordi.
Era passata la una. Il cielo stellato della Navarra sembrava da presepe. Faceva freddo. L’aria gelida scivolava sinuosa giù dai Pirenei.
Aspettavo el Tio sulla panca fuori dalla sua cascina, con il cane Ernesto.
Tre sagome scure, avvolte nei cappotti, con il bavero alzato, fendevano il buio. Il loro brusio accarezzava il silenzio.
Paco è il più alto. Poi el Tio e alla sinistra Fernando.
Cosa si dicevano non lo so. Suppongo le parole di sempre. Le frasi di sempre. I ricordi di sempre. E non stancano mai.
Paco era il portiere. El Tio lo stopper, mentre Fernando faceva l’ala. A sinistra. E’ mancino, Fernando.
Mancava Agustìn. Piccolo, scaltro, sgusciante, con gli occhi spiritati. Era attaccante, Agustìn. E’ venuto a mancare lo scorso febbraio. Dentro la nebbia. Dentro un male bastardo.
C’è una generazione fra me e loro. Mio padre mi portava a vederli giocare, alla domenica. E per me erano meglio degli eroi del Signor Santiago Bernabeu.
Ogni Nochebuena, da vent’anni a questa parte, dopo la messa nella parrocchia di Villava, si trovano alla cascina del Tio. Per giocare a carte. Per tirare mattina. Per accompagnare il Natale, per animare i ricordi.
E per rimanervici aggrappati.
Li stavo aspettando. Avvolto nella mia inseparabile solitudine. Nella malinconia di una festa. Nella consapevolezza dello scorrere inesorabile del tempo.
Con la bottiglia di vino della zia Maider e un panettone comprato a Bergamo.
“L’atalantino gioca con me, stanotte.”
Disse Paco.
Mi chiamavano così, conoscendo la mia strana passione per una squadra a millecinquecento chilometri al di là dei Pirenei.
Di solito Paco, il più scarso, giocava in coppia con el Tio, il più bravo. Mentre Fernando e Agustìn formavano l’altra coppia.
Ma Paco volle me, per quella Nochebuena di vino, panettone, orujo de hierbas e tanti ricordi.
Vincemmo noi, quella notte. Fui strepitoso.
E verso l’alba, quando il sole cominciava a pennellare di rosa le vette dei Pirenei, inserii nel televisore del Tio la chiavetta con i novantanove gol dell’Atalanta del 2019.
Perché ognuno rimane aggrappato alle proprie tradizioni.
Come rimanevo aggrappato ai tronchi di faggio lungo gli argini dell’Arga. O alla bottiglia di vino di zia Maider.
E i tre ragazzotti di un tempo, rigati da rughe inesorabili e sincere, con una mano rimanevano aggrappati ai ricordi, con l’altra si attaccavano alla nuova realtà di un sogno, neroazzurro, che continua e che stanno facendo diventare un po’ anche loro.
Rodrigo Dìaz