05/10/2017 | 04.44
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Quel giovedi' di Coppa

Sono andato dal Tio, giovedì sera. Ci sono andato per la partita.

Ci sono andato con la scusa della partita.

“El Tio non sta molto bene. E’ morto il cane. Conviene che tu passi a trovarlo.”

La voce di Charo era tremula. E non era perché chiamava dal retro del supermercato, dove il telefono non prende bene.

Da tempo non ci sentivamo. E mi aveva chiamato per quello. Riattaccando subito. Non so se stesse arrivando il capo reparto o se stesse per singhiozzare.

Avevo già acquistato il biglietto per la partita di Lione. Un mio cliente me lo aveva procurato in tribuna. Posizione ottimale per vedere la prima trasferta dell’Atalanta in Europa, dopo ventisette anni. E per me, che ero stato a Lisbona nell’ottantotto, era come riempire un buco nel tempo profondo trent’anni.

Ma quell’uomo di un altro tempo per me ha un valore strano. Particolare. Che non ha peso, ma ha uno spessore.

Come il suo cane lo aveva per lui.

Da Agustìn Chacòn ho preso un paio di bottiglie di bianco della Ribera del Duero, un Orujo de hierbas e quattro paste di mandorle, che a lui piacciono molto.

Entrando con l’auto nella cascina, nessuno mi è venuto incontro. E questo è stato l’incipit di una serata strana.

Solo allora, che non mi era venuto incontro, mi ero reso conto di come quella bestiola silenziosa riempiva la cascina abitata dal Tio. Da solo.

“Piselli con il Bonito del Norte. Se vuoi metto su anche una tortilla di patate.”

Mi disse senza voltarsi.

“Il vino mettilo in fresco.”

Non mi stava aspettando. Forse era certo che fossi andato a Lione. Ma non fu sorpreso. Non riuscì ad essere sorpreso, perché la sua anima non era lì, quella sera.

Sullo schermo del televisore scorrevano le immagini delle squadre che scendevano in campo. Il volume era bassissimo.

“Stasera non si perde.”

Disse. Di nuovo senza voltarsi.

Aveva già pronunciato tre frasi. Quando solitamente ne pronunciava non più di cinque in una serata intera.
Forse l’aveva fatto per evitare che parlassi io. Che toccassi quell’argomento di cui non voleva si parlasse, ma del quale aveva un disperato bisogno di parlare.

L’Atalanta soffriva, ma resisteva. In campo c’era tutta quella voglia di lottare contro un avversario superiore che da centodieci anni è intrisa nelle maglie degli orobici e che è la stessa che aveva accompagnato el Tio nella sua vita sui campi in terra battuta, cinquant’anni prima.

Non aveva espressione la faccia del Tio. Ma se c’era qualcosa che poteva infilarsi fra le rughe di quella faccia, invecchiata di colpo dal sabato prima, questa era proprio l’abnegazione che vedeva trasudare dagli undici in tenuta noroazzurra.

“No! Non ci voleva il gol al quarantacinquesimo!”

“Stasera non si perde.”

Ribadì senza scomporsi. E senza togliere lo sguardo dal televisore, che sembrava trapassare lo schermo e finire chissà dove.

Durante l’intervallo lo aiutai a sparecchiare.

La casa era incredibilmente vuota. Mancava un’anima là dentro. Un’anima silenziosa, ma incredibilmente spessa, che riempiva un’atmosfera ormai rarefatta.

Poi el Tio si sistemò sulla sua poltrona. La solita. Con il bicchiere di vino in mano e la bottiglia appoggiata sul pavimento.

Io invece mi sistemai sul divano. Seduto sul lato di testa, dove mi mettevo di solito, perché sul lato dei piedi, in fondo, si metteva sempre il cane.

Io misi per terra, al mio fianco, l’Orujo de hierbas. Avevo bisogno di qualcosa di più forte che un semplice bianco del Duero, per affrontare un secondo tempo di sofferenza, forse ancora più grande, visto che si stava perdendo.

Ma qualcosa di altrettanto forte avevano messo nelle gambe i ragazzi di Gasperini.

“Stasera non si perde.”

Pronunciò di nuovo el Tio, dopo una dozzina di minuti di arrembaggio, mentre Lopes raccoglieva dalla rete la sassata del Papu.

Una ruga si era mossa sulla sua faccia. Una sola ruga. Ma si era mossa.

Al termine della partita el Tio si era addormentato. Pochi minuti dopo la fine. Pochi minuti dopo aver visto i neroazzurri omaggiare la bolgia dei tifosi che li aveva accompagnati e sostenuti.

Bicchiere e bottiglia vuoti, sul pavimento.

Forse era da sabato notte che non dormiva. Da quando quella casa si era improvvisamente svuotata.

Sono rimasto lì giovedì notte.
A dormire sul divano. Rannicchiato, perché dalla parte dei piedi non mi riusciva di allungarmi.


Rodrigo Dìaz

By staff
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