28/07/2019 | 14.00
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Sport Week intervista il Papu: ecco tutto ciò che ha detto

IMG_20190727_143548La versione cartacea di Sport Week in edicola ieri rendeva omaggio all'Atalanta con diversi servizi, uno dei quali era una bella e lunga intervista al capitano dei nerazzurri, Alejandro Dario Gomez. Ecco cosa il "Papu" ha detto, nella trascrizione integrale del pezzo.

 

Come appare Bergamo nella vita del Papu?
«Ero a Buenos Aires, scappato da poco dall’Ucraina. Extracomunitario per il calcio,dunque fatica per trovare una squadra, dunque ansia. Volevo solo l’Italia, avevo deciso che la mia vita sarebbe stata qui forse già prima di arrivare a Catania, quando ero al San Lorenzo: il mio compagno di stanza era Kily Gonzalez, mi faceva lunghi racconti sulla Serie A e la domenica mattina a colazione guardavamo insieme le partite italiane,il campionato di Crespo e di Zanetti, di Veron e di Samuel.Dunque nel 2014 pensavo solo a tornare qui, dove mi volevano il Verona e l’Atalanta. Il mio procuratore era lo stesso di Denis: parlo col Tanque, con Maxi Moralez, con Carmona. E poi decido. A Milano, negli uffici di Percassi, in una stanza Jack Bonaventura stava firmando per il Milan e in un’altra io per l’Atalanta».

E quando hai deciso che la tua vita non sarebbe stata semplicemente in Italia, ma a Bergamo?
«L’Italia è l’esatto contrario dell’Argentina: il vostro Nord è il nostro Sud, e viceversa. Ho adorato il Sud, ma piano piano ho iniziato ad apprezzare la cultura bergamasca. Riassume bene quella del Nord Italia: gente seria, tradizione del lavoro, ti puoi chiamare Obama o Gomez, ma sei un cittadino come gli altri. E paghi chi lavora per essere pagato: a Bergamo mi adorano, ma nessuno mi ha mai detto in un ristorante o in un negozio come succedeva a Catania “No, Papu, per te è gratis”».

Cinque foto di Bergamo per chi non la conosce.
«Io dal fruttivendolo: “Grande Papu, che gol ieri, dài portaci in Champions”.
“Grazie, quant’è?”. “Settanta euro e trentadue centesimi”.Gli do 71, lui non mi dice “No, no, fai 70”: mi dà 68 centesimi di resto. Io che giro in città con il monopattino elettrico: in una mattina faccio dieci cose nel raggio di due chilometri, a Buenos Aires forse riuscirei a farne una. Il rispetto per il guadagno e delle persone a cui dai lavoro, che sia l’operaio, l’elettricista, il giardiniere. La Città Alta: una bellezza che stupisce chi ci viene da turista per un giorno, e io ce l’ho tutti i giorni. E l’aeroporto di Orio: dà l’idea di quanto Bergamo sia diventata internazionale».

E ora con la Champions lo sarà ancora di più. Questa storia invece quando è iniziata?
«Dopo la vittoria di Napoli: una mazzata per quelli che pensavano “prima o poi crollano”. Nello spogliatoio urlavamo come matti, tutti: “E adesso ci andiamo! Ci andiamo!”. Solo sei mesi prima, svuotati come dei sacchi dopo la botta del Copenaghen nei preliminari di Europa League, eravamo gli stessi, chiusi in una stanza, a chiederci: e adesso per cosa giochiamo? Sai in quanti avevano risposto per l’Europa? Nessuno».

E tu sai cosa avevi detto altri sei mesi prima?«Non vorrei smettere senza giocare la Champions, ma con l’Atalanta è dura».
«Avevamo finito il campionato precedente con 72 punti: quarti, fuori dalla Champions. Bada bene, 72: tre in più del campionato che ci ha dato la Champions.Ci stava pensare che era un orizzonte lontanissimo, no? Per questo è stato un traguardo storico, per questo Bergamo è impazzita. Arrivare in Champions con l’Atalanta ha il sapore di un altro godimento: è tutto lavoro, tutto sacrificio, tutto gruppo. Giocare la Champions con l’Atalanta vale non aver mai preferito un top club. O un top ingaggio».

Avresti potuto?
«A gennaio dall’Arabia, era l’Al-Hilal, mi avevano offerto una barca di soldi: a 31 anni più di dieci milioni a stagione, roba da vacillare. Mi sono messo nei loro panni, non era quello il momento per andarmene, ma ho chiesto a Luca Percassi di mettersi nei miei. Non era solo una questione di soldi, e neanche di contratto a vita, perché all’Atalanta ho iniziato il sesto anno, magari giocherò per altri 5-6, dodici nello stesso posto forse saranno troppi, e insomma oggi non so dire se finirò la carriera qui. Mi interessava altro, e parlai chiaro: ma voi volete che io sia davvero una bandiera, per l’Atalanta?».

Supponiamo che la risposta ti soddisfò.
«Certo. Ma sai quando ho capito definitivamente di non aver sbagliato? L’altra mattina, prima di andare al raduno. Sfogliando con mia moglie delle vecchie foto ne abbiamo ritrovata una di quando eravamo appena arrivati a Bergamo, c’è mio figlio Bauti, allora aveva due anni, al vecchio stadio: due ristrutturazioni fa, si vede ancora il muro di plexiglas dietro le panchine. Poi il pomeriggio siamo andati a vedere il nuovo stadio, che sarà bellissimo. E ho capito che adesso il top club ce l’ho: è l’Atalanta».

Però la maglia continui a non baciarla.
«L’ho fatto una volta, ho sbagliato, e ho giurato di non farlo più. Appena arrivato al San Lorenzo mi fischiavano, segnai un gol e baciai lo stemma: non era sentimento, cercavo solo di farmi voler bene. Ma diventò un tormento, più dei fischi che arrivavano come prima: “Perché l’hai fatto?”, continuavo a chiedermi. Oggi ai giovani insegno a non dire mai “questa è casa mia”, perché non si può mai sapere: e se litigo con l’allenatore, con il presidente? Non posso promettere di indossare questa maglia per sempre,dunque non la bacio».

All’Atalanta dite tutti: in Champions meglio le big subito, già nel girone.
«Tanto ci toccano sicuro: a cosa serve sperare in una cosa impossibile?».

Più facile passare il girone di Champions o arrivare di nuovo fra le prime quattro in campionato?
«Buona la prima. In Europa non ci conoscono ancora così bene, magari qualche sorpresa si può ancora fare. Come due anni fa: Lione e Everton se lo ricordano bene».

Più facile, giocando a San Siro?
«San Siro per me è Inter-Catania alla fine della settimana in cui morì mio fratello Diego: non potei andare in Argentina al suo funerale, ma quel giorno segnai per lui. San Siro è uno stadio unico, “mondiale”: se a Roma per la finale di Coppa Italia da Bergamo sono venuti in 25.000, a Milano possiamo arrivare a 45-50.000, tifosi non dell’Atalanta compresi».

Hai detto effetto sorpresa: c’è il rischio che l’Atalanta alla lunga diventi più leggibile, prevedibile?
«Problemi del mister, per fortuna non faccio ancora l’allenatore... Ma da quando c’è, è sempre riuscito a darci qualcosa di nuovo, a sorprendere: io che da seconda punta faccio 16 gol, Cristante che da centrocampista incursore ne segna 9, io che divento trequartista...».

Non faccio ancora l’allenatore: ti è scappato?
«No, no: non è un mio pensiero. Anzi: dopo vent’anni di questa vita, 17 da professionista e dunque più di metà vita, oggi mi vedo più procuratore».

Gomez trequartista: fu una proposta o un ordine?
«Se conosci un po’ Gasperini ti rispondi da solo. Ma lui sapeva che non avrei detto no, si trattava solo di provare e all’inizio non andò subito bene, mi schiacciavo troppo sui centrali difensivi avversari. Poi ha funzionato».

Però ti tocca correre 10-11 chilometri a partita. E non sei più nella top ten dei dribblatori europei.
«Correre non è un problema, fatico di più a dribblare meno visto che come calciatore nasco così: non è che non posso più farlo, ma devo capire dove e quando posso. In compenso ho dato 15 assist: cambierò top ten...».

Fa bene Gasperini a chiedere un’altra punta?
«Dipende come vuole giocare e come ci vuole far giocare: io posso fare anche l’attaccante a sinistra, Muriel e Zapata stare in mezzo o allargarsi. Già adesso siamo un attacco top: con Ilicic, chi ce li ha quattro attaccanti così?».

Una cosa che ti impressiona di Muriel?
«Per la rapidità di scatto sui primi metri, è quello che da sempre mi ha ricordato di più Ronaldo, il Fenomeno. E gli bastano uno-due secondi per tirare: ti brucia».

Un giorno hai detto: Gasperini è un grande, ma ci sono cose di lui che non mi vanno giù. Ce ne racconti una?
«Me la tengo per me, ma sarei finto se dicessi che mi piace tutto, come sicuramente non tutto quello che faccio io piace a lui: io amo mio padre, ma delle volte lo ammazzerei, non c’è nulla di strano. E quando stai insieme trecento giorni all’anno, da tre anni, ci sta che delle volte non ti sopporti».

Però ti ricorda Bielsa, che adori.
«In una cosa sono uguali: non cambiano le loro idee fino alla morte. Non so se sia una cosa solo positiva, però mi piace».

Bielsa ha fatto sognare l’Argentina e l’Argentina, intesa come nazionale,è stata un tuo sogno troppo breve: ci hai messo una pietra sopra?
«Quasi. Ma non perché non stia facendo abbastanza per meritarla: in una lista di 40 nomi per la Coppa America, io credo che Gomez potesse starci. Dopo quella “famosa” entrata che feci su Biglia, in Argentina venne fuori un casino: mi hanno massacrato, dissero che avevo fatto apposta per farlo fuori. Mi sa che è una cosa che viene dall’alto: quasi una questione politica».

Tue parole: «Instagram per me è uno strumento di lavoro». Nel senso?
«È anche un discorso economico, inutile fare i puritani: i marchi lavorano con i social. Ma se ti deve prendere, un marchio guarda anche la tua immagine e se io sono un calciatore che non ha milioni di tifosi nel mondo come uno della Juve o del Real, vive in una piccola città e non in una metropoli, ma nonostante questo ha due milioni di follower, vuol dire che ho una buona immagine. Che faccio le cose per bene e mi si vuole bene. Vuol dire che il fatto di pensare, prima di spingere il tasto  invio, che il mio post verrà visto anche da bambini che hanno l’età di mio figlio, alla fine paga: anche soldi, ma non solo soldi. Infatti quando pubblico qualcosa per un marchio prendo ventimila like; se metto uno scherzo, qualcosa di divertente, sono ottantamila».

Ne inventi più tu o il tuo amico Petagna?
«Petagnaaaa??? Io invento, lui copia...».

Ma inventerai anche un altro tormentone tipo Papu dance?
«Abbiamo vinto un disco di platino, ricavato 50.000euro per opere di bene: se una cosa riesce bene una volta, può bastare».

Ci resta una curiosità: il soprannome Papu te l’ha dato tua mamma, e si sa, ma perché?
«Non c’è un perché: ero nella culla e mi chiamava Papuchito, era una coccola. Ma c’è un perché se anche nel calcio sono il Papu da sempre. Quando arrivai al San Lorenzo,il quotidiano sportivo Olé titolò grosso così: ecco il Piojo Gomez. Convocai i giornalisti: “Sono piccolo, ma pidocchio no, vi prego. Se va bene lo stesso, chiamatemi pure  Papu”. Andava bene, pare: al mondo c’è una persona sola che mi chiama Ale, mia moglie».

 

By Gandalf
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